Arriva la carne coltivata

Carne coltivata

Arianna Ferrari / 09-04-2024

 

Introduzione di Carne Coltivata

 

L’estate 2023 ha segnato la svolta per la commercializzazione della carne coltivata, già possibile dal dicembre 2020 a Singapore. Nel luglio 2023 il ristorante stellato (Michelin) Bar Crenn in California ha aperto la degustazione di pollo coltivato, prodotto dalla compagnia UPSIDE Foods e, inoltre, GOOD Meat ha organizzato un evento di degustazione della sua carne coltivata di pollo in un ristorante a Washington. Ancora a luglio il governo olandese ha creato un “codice di pratica” che renderà possibili le degustazioni di carne e pesce coltivati in ambienti controllati.

Questo accordo rende i Paesi Bassi il primo paese dell’Unione europea a consentire degustazioni pre-autorizzazione di cibo coltivato direttamente dalle cellule animali prima dell’approvazione di un nuovo alimento da parte dell’Unione europea. Sempre in luglio, l’azienda israeliana Aleph Farms ha presentato in Svizzera la prima richiesta per carne coltivata nella regione europea. A gennaio del 2024 il ministro della salute israeliano ha dichiarato di aver concesso all’azienda il permesso di commercializzare il suo prodotto “AlephCuts”, riconosciuto da un rabbino anche come prodotto kosher e parve (né carne né latticino).

Nel settembre 2023 l’azienda tedesco-canadese Cultivated B (TCB) ha iniziato un processo preliminare per l’approvazione di una salsiccia di carne coltivata da parte dell’EFSA, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (European Food and Safety Authority). L’Italia ha scelto una via diametralmente opposta, ossia quella del divieto della carne coltivata.

Dopo l’approvazione in Senato nel luglio del 2023, il 16 novembre il Parlamento ha approvato con una maggioranza schiacciante (159 a favore, 53 contrari e vari astenuti) il disegno di legge che vieta la produzione e l’immissione sul mercato di alimenti e mangimi costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari o di tessuti derivanti da animali vertebrati, insieme al divieto della denominazione di carne per prodotti trasformati contenenti proteine vegetali (Ministero della Giustizia 2023).

Nella Legge n. 172/2023, presente nella Gazzetta ufficiale del 1° dicembre ed entrata in vigore il 16 dicembre 2023, sono previste anche sanzioni per i trasgressori come il divieto di accesso a contributi, finanziamenti e agevolazioni dello Stato italiano, così come della UE, e la chiusura dello stabilimento di produzione.

Si può proprio dire che il Governo italiano abbia fatto della carne coltivata un cavallo di battaglia nella difesa dell’agricoltura tradizionale, mettendosi in aperto conflitto con la politica europea. A fine gennaio 2024 l’Unione europea ha bloccato in anticipo la procedura TRIS riguardo al divieto sulla carne coltivata in Italia, una procedura giuridica prevista quando vengono approvate norme che ostacolano la libera circolazione delle merci in ambito comunitario. Il blocco è dovuto a un errore procedurale, in quanto l’Italia ha adottato la legge prima della fine del periodo di sospensione di tre mesi previsto dalle direttive europee.

Inoltre, sempre a gennaio 2024, l’Italia si è fatta promotrice di una nota informativa presentata al Consiglio agricoltura e pesca dell’Unione europea, insieme alle delegazioni francese e austriaca, e sostenuta da altri nove Paesi (Repubblica Ceca, Cipro, Grecia, Ungheria, Lussemburgo, Lituania, Malta, Romania e Slovacchia) richiedendo prima dell’immissione della carne coltivata sul mercato europeo una valutazione più ampia di quella che potrebbe fare l’EFSA comprendente aspetti etici, sociali, economici e culturali. In questa nota l’Italia insieme agli altri Paesi ha richiesto, inoltre, che la carne coltivata venga classificata come “prodotto farmaceutico” e quindi sottoposta ad altre pro cedure di approvazione rispetto a quelle previste per gli alimenti.

Ma ancora una volta l’Unione europea, nella persona della commissaria per la sicurezza alimentare e la salute Stella Kyriakides, ha risposto che le odierne norme dell’UE sono solide e che, attualmente, l’EFSA sta preparando delle revisioni, introducendo disposizioni all’avanguardia per la sicurezza e la valutazione nutrizionale degli alimenti coltivati in laboratorio. La carne coltivata (anche definita sintetica, in provetta o coltivata in laboratorio) si propone come innovazione capace in un colpo di risolvere i dilemmi ambientali, medici ed etici della carne “convenzionale”. Con la carne coltivata non sarebbe più necessaria l’uccisione di milioni di animali: basterebbe prelevare dall’animale cellule staminali, coltivarle in laboratorio e produrre direttamente hamburger, bistecche e altro (in realtà la carne non è altro che muscolo di animale).

Non essendoci animali, il consumo di antibiotici e di risorse necessarie all’allevamento sarebbe eliminato. Si risparmierebbero suolo, acqua ed energia, soprattutto se la carne coltivata venisse prodotta con energia rinnovabile. Il cibo è politico Cosa mangeremo in futuro? Negli ultimi anni le domande su ciò che finisce nei nostri piatti sono notevolmente cambiate. Mentre per le generazioni passate si trattava principalmente di una questione di gusti e disponibilità finanziaria e geografica, oggi sempre più persone pensano alla salute e alle implicazioni etiche, politiche e ambientali legate alla scelta del cibo. Quali conseguenze ha l’acquisto di un determinato prodotto? È accettabile mangiare tutto quanto è offerto nei supermercati? Quali sono le possibili alternative? Cosa, o meglio, chi sto mangiando e a quale prezzo? In particolare, è il consumo di carne (e pesce) ad accendere nuovamente il dibattito: è moralmente accettabile uccidere animali per nutrirsene in zone del mondo dove questo non è necessario per la sopravvivenza? È moralmente e politicamente giusto consumare carne e pesce nonostante i problemi ecologici che questo causa? Nessuno oggi può più mettere in dubbio che la scelta del cibo sia un atto etico e politico.

Il consumo di carne è uno dei fenomeni più ambivalenti dei nostri tempi. Da una parte la richiesta di carne continua a crescere. Nel 2018 sono stati prodotti in tutto il mondo circa 360 milioni di tonnellate di carne, negli anni Settanta erano solo un terzo. Secondo le previsioni dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO 2021; 2022b), la produzione aumenterà nei prossimi dieci anni di altri 40 milioni di tonnellate. Dall’altra, mai come in questi tempi, il consumo di carne (e di prodotti animali in generale) è diventato oggetto di critiche. La produzione di carne ha un enorme impatto ambientale, causa seri problemi di salute e implica l’uccisione e il confinamento di milioni di animali.

L’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) stima che una percentuale compresa tra il 21 e il 37% delle emissioni totali di gas serra a livello globale sia attribuibile alla nostra alimentazione (IPCC 2022). Questo dato tiene conto dell’intera catena alimentare, dai campi e dalle stalle fino al piatto. I prodotti alimentari di origine animale, in particolare latticini, pesce e carne, hanno un’impronta ambientale molto elevata (Clark et al. 2022). Secondo FAO e altri (2023) le emissioni di gas a effetto serra provenienti dalla filiera zootecnica rappresentano circa il 14,5% delle emissioni globali totali.

L’utilizzo degli animali come fonte di cibo costituisce la stragrande maggioranza dell’impronta terrestre (ossia sul suolo) dell’umanità. Tutti gli edifici, le strade e le superfici asfaltate del mondo occupano meno dell’1% della superficie terrestre globale, mentre oltre il 45% viene utilizzato come terreno per il pascolo o per coltivare mangimi per gli animali allevati. L’allevamento di animali utilizza l’8% del consumo globale di acqua, (il 7% solo per la produzione di mangimi). Secondo lo studio di Poore e Nemecek (2018), che hanno analizzato i dati di 40.000 aziende agricole in 119 Paesi, l’utilizzo attuale dell’83% del suolo agricolo globale per l’allevamento e l’acquacoltura permette di ricavare solo il 18% delle calorie e il 37% delle proteine.

Il resto delle calorie e delle proteine già oggi deriva dalla coltivazione di vegetali. La carne bovina, la più consumata, richiede 20 volte più terra ed emette 20 volte più gas serra per grammo di proteine commestibili rispetto alle proteine vegetali comuni, come fagioli, piselli e lenticchie. Non esiste alcuna via per raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima (COP 21) senza una massiccia diminuzione della scala dell’agricoltura animale (Ranganathan et al. 2018).

Secondo la Banca Dati Nazionale dell’Anagrafe Zootecnica (BDN), in Italia esistono più di 370.000 allevamenti dove ci sono oltre sei milioni di bovini e bufalini, quasi sette milioni di pecore, oltre un milione di capre e quasi otto milioni e mezzo di maiali (Degano 2023). In Italia, il settore agricoltura rappresenta il 7% circa delle emissioni nazionali di gas serra, il 18% delle quali deriva solo dalla gestione delle deiezioni animali.

L’allevamento è responsabile per l’80% delle emmissioni di ammoniaca totali in Italia (ISPRA 2020). La distribuzione delle emissioni tuttavia non è uniforme sul territorio: in Lombardia si trova la più alta concentrazione di allevamenti, 894, in particolare di maiali e di “mucche da latte” e questi rappresentano il 90% delle aziende zootecniche su scala industriale del nostro Paese. La Lombardia è una “Zona Vulnerabile da Nitrati” (ZVN) secondo la classificazione dell’Uni one europea.

Un gravissimo problema è rappresentato dalla gestione dei reflui zootecnici (ossia i rifiuti organici degli animali): moltissimi comuni della Lombardia superano i livelli consentiti di azoto (170 chili/ettaro) e solo gli allevamenti intensivi più grandi di suini e pollame in questa regione emettono ogni anno 20.757 tonnellate di ammoniaca secondo un’indagine condotta da Greenpeace nel 2022. Negli ultimi anni, sempre più studi collegano il consumo eccessivo di carne all’obesità, alle malattie cardiovascolari, all’ipertensione o al diabete di tipo 2.

È stato calcolato che, nel 2017, 11 milioni di morti siano attribuibili a fattori di rischio dietetici e in particolare a un’elevata assunzione di sodio e a un basso consumo di cereali integrali, frutta, verdura e noci (Afshin et al. 2019). La crescente industrializzazione della produzione animale ha portato a fenomeni di sfruttamento animale prima sconosciuti, come la castrazione di suini maschi senza anestesia, la rimozione sistematica delle corna dei vitelli, l’accorciamento del becco di pulcini e tacchini da ingrasso e una proliferazione di vecchie e nuove malattie dovuta alle cattive condizioni igieniche e/o al numero crescente di animali ammassati in poco spazio.

Agli animali destinati alla produzione alimentare vengono somministrati moltissimi antibiotici: la resistenza agli antibiotici è stata dichiarata uno dei più gravi problemi di salute al mondo. Inoltre, come ha dimostrato la pandemia di COVID-19, il cibo di origine animale è alla base della maggior parte delle malattie infettive emergenti, sia direttamente attraverso la trasmissione di malattie da una specie all’altra (zoonosi), in particolare da specie animali all’uomo, sia indirettamente attraverso l’espansione e l’intensificazione agricola che favoriscono l’esposizione degli esseri umani e del loro cosiddetto bestiame agli animali selvatici (Espinosa et al. 2020). Per quanto riguarda il pesce, i problemi sono un po’ diversi, ma di proporzioni altrettanto rilevanti.

L’esaurimento graduale dei pesci nei mari e negli oceani, così come l’inquinamento marino legato all’industrializzazione e all’urbanizzazione, influisce sulla sostenibilità e sulla sicurezza dei prodotti ittici destinati al consumo umano. La crescita dell’acquacoltura come risposta alla diminuzione dei pesci presenta, tuttavia, molteplici problemi. L’allevamento di pesci in acquacoltura non ha alleviato la pressione sulla pesca delle popolazioni di pesci selvatici (Longo et al. 2019), è fonte di perdita di biodiversità, danni ecologici, abusi dei diritti umani dei lavoratori di questa industria ed enormi problemi di salute e sofferenza dei pesci, data la mancanza di dati specifici sulla maggior parte delle specie coltivate, e l’abuso di antibiotici.

Stime in corso suggeriscono che il numero di pesci uccisi ogni anno è probabilmente superiore ai 70 miliardi di animali che sono allevati a terra. Purtroppo vi sono ancora molti pregiudizi riguardo alla sofferenza nei pesci, forse perché la vita sottomarina è fondamentalmente diversa da quella terrestre e umana. Molti studi scientifici hanno invece dimostrato che i pesci sono do tati di nocicettori, noti anche come recettori del dolore (Sneddon e Roques 2023). Quando, per esempio, i pesci vengono punti con uno spillo dietro le branchie, i loro nocicettori producono una scarica di attività elettrica al cervello che va a stimolare anche aree cruciali per le esperienze sensoriali coscienti, come il cervelletto, il tectum e il telencefalo. L’allevamento di animali terrestri, la pesca e l’acquacoltura causano sofferenza e costituiscono un problema di salute pubblica.

La sofferenza di animali terrestri e acquatici è un tema ampiamente discusso nel mondo scientifico, meno in quello politico e mediatico. Come vedremo nel capitolo quattro sono molto poche le posizioni etiche contemporanee (come, per esempio, alcune forme di utilitarismo) che difendono il consumo di proteine animali in un sistema che garantisce una forma di “benessere animale”. Nessuna posizione di mia conoscenza difende eticamente lo stato attuale delle cose, soprattutto considerando il sistema alimentare di Paesi nei quali l’accessibilità alle proteine vegetali non rappresenta un grosso problema (quest’ultimo punto sarà approfondito anche nell’Epilogo).

Anche dal punto di vista giuridico, soprattutto nei Paesi occidentali, aumenta la critica all’incompatibilità di fatto fra impianti giuridici che promuovono il benessere animale e lo status quo delle pratiche ammesse nell’uso degli animali a livello legislativo. La sistematica violazione del benessere animale e l’uccisione degli animali oggi è forse uno degli esempi più eclatanti del gap fra riflessione etica contemporanea e realtà.

Esiste una vasta letteratura che suggerisce che le diete a base vegetale emettono meno anidride carbonica inferiore rispetto alle diete basate su un maggiore consumo di alimenti di origine animale. La Com missione EATLancet sulle diete salutari da sistemi sostenibili ha raccomandato una trasfor mazione dei sistemi alimentari a livello globale, capace di garantire la definizione di “limiti planetari” riguardo ai cibi che dovrebbero essere consumati dagli esseri umani e ai tipi di cibo che dovrebbero essere coltivati per sostenere la salute umana e l’ambiente (EAT-Lancet Commission 2022).

Secondo questa commissione il menù per la salute planetaria dovrebbe essere composto per il 50% da frutta e verdura, mentre l’altra metà del menù dovrebbe consistere principalmente di proteine vegetali, cereali integrali, oli vegetali insaturi e quantità limitate di proteine animali.

Inoltre, esiste un’ampia letteratura scientifica che sottolinea i vantaggi per la salute e per l’ambiente di diete completamente vegetali, ossia vegane, bilanciate (Springmann et al. 2021). La trasformazione della produzione alimentare globale verso diete a base vegetale entro il 2050 potrebbe contribuire per il 66% a limitare l’innalzamento della temperatura globale oltre la soglia del 1,5 °C e potrebbe portare a un risparmio fino a 547 gigatonnellate di anidride carbonica, la quantità che attualmente l’essere umano produce in quindici anni tramite l’utilizzo del combustibile fossile (Hayek et al. 2021).

In uno studio del 2023, che analizza il regime alimentare di 55.000 persone in Gran Bretagna, si evidenzia che le diete vegane hanno causato il 75% in meno di emissioni di gas serra, inquinamento delle acque e uso del suolo rispetto alle diete in cui venivano consumati più di 100g di carne al giorno.

Le diete vegane hanno inoltre ridotto del 66% la distruzione della fauna selvatica e del 54% l’uso dell’acqua (Scarborough et al. 2023). La necessità di ridurre il consumo di carne e pesce e di sviluppare “proteine alternative”, sebbene nota alla comunità scientifica da decenni, è diventato un tema politico importante a livello europeo solo recentemente, anche grazie alle continue pressioni delle organizzazioni ambientaliste e animaliste per modificare la strategia Farm to Fork, che delinea in Europa la politica alimentare sostenibile.

Nel febbraio del 2022 il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione che chiede alla Commissione europea e agli Stati membri di aiutare i consumatori a seguire una dieta più sana, in prevalenza vegetale, e a ridurre il consumo eccessivo di carne per diminuire i rischi di cancro. La Commissione europea sta attualmente lavorando a una proposta di regolamento su un quadro per sistemi alimentari sostenibili (FSFS) che definisce una delle iniziative principali della strategia Farm to Fork.

La carne coltivata è un’innovazione che polarizza e lo fa in modo molteplice. Nella letteratura si assiste a una difesa e a un attacco a questa innovazione da una prospettiva antropocentrica e da una prospettiva di superamento dell’antropocentrismo. C’è chi difende la carne coltivata in nome della competitività e del progresso, c’è chi si schiera dalla parte degli allevatori e vuole tutelare i prodotti tipici del territorio. C’è chi afferma che la carne coltivata perpetuerà la logica di sfruttamento degli esseri umani attraverso i brevetti e degli animali attraverso il loro utilizzo, c’è chi ritiene che vegetariani e vegani abbiano un dovere morale a difendere e promuovere questa innovazione.

Per capire meglio queste polarizzazioni e discuterle in maniera proficua è necessario partire da una conoscenza e comprensione chiara dello stato attuale del dibattito scientifico sulla carne e sul pesce coltivati.

 

Carne coltivata

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