di Fabrizio C. – 5 settembre 2025
Sabato 6 settembre a Milano si terrà la manifestazione nazionale nata dopo lo sgombero del Leoncavallo di via Watteau. Lo slogan scelto è “Contro i padroni della città”, un chiaro rimando alla prima assemblea nazionale che si svolse sempre a Milano nel 1989, dopo lo sgombero di via Leoncavallo.
I corsi e ricorsi storici, però, non sono mai identici: ad esempio non si può non ricordare la manifestazione del 10 settembre 1994, quando il Leoncavallo era appena stato rioccupato proprio in via Watteau, da cui sono stati sgomberati lo scorso 21 agosto.
Trentun anni dopo, ieri come oggi, si torna in piazza non solo per il Leoncavallo. Questo “capitolo” vuole essere uno strumento per capire cosa accadde e cosa si mosse in quel 10 settembre del 1994. Si chiudeva un cerchio, se ne apriva un altro, che la polizia ha chiuso di nuovo lo scorso mese.
“La Polizia…la Polizia…la Polizia sta retrocedendo!” gridavano ai microfoni di Radio Onda d’Urto il 10 settembre del 1994, una data che ha segnato profondamente il movimento antagonista milanese.
Il 9 agosto, un mese prima, era stato di nuovo sgomberato il Leoncavallo, quello di via Salomone, la sede provvisoria assegnata dal Prefetto dopo lo sgombero di via Leoncavallo di gennaio dello stesso anno. La “Milano da bere” socialista era stata travolta qualche anno prima, ad aprile Berlusconi aveva vinto le elezioni, l’anno precedente il leghista Formentini diventava sindaco di Milano, la prima volta per un leghista. La deflagrazione di quel giorno, la lunga rincorsa dei manifestanti nei confronti della celere, segnerà l’immaginario di generazioni di militanti milanesi, una lunga rincorsa partita qualche anno prima.
Per Paolo, militante del Leonka fino alla fine degli anni 90:
“Partiamo dal fatto che il corteo dell’opposizione sociale del settembre 1994 è un corteo nazionale e, in qualche modo, riprende tutto quel ciclo di lotte iniziato nell’89, che ha dato vita all’occupazione di decine e decine di centri sociali in tutta Italia, non solo a Milano. Quindi quel corteo viene sì chiaramente organizzato, o quantomeno promosso, dal Leoncavallo, ma il Leoncavallo è affiancato sia dalle realtà milanesi sia dalle relazioni di carattere nazionale con gli altri centri sociali. È lì che nasce, sostanzialmente, il corteo del 10 settembre 1994 dell’opposizione sociale.
Pochi giorni prima del corteo — due o tre giorni prima — i compagni del Leoncavallo occupavano lo stabile di via Watteau, quello che poi, sostanzialmente, è stato sgomberato ora. Il corteo si muove da Porta Venezia verso il centro della città; la questura impone un divieto in quella direzione e, arrivati in piazza Cavour, il corteo devia, raggiungendo l’angolo dove si trova il consolato USA. I compagni sfondano e, nell’immaginario, è la prima volta dopo tantissimi anni che si vede la polizia scappare, nonostante ci si trovi a soli 50 metri dalla questura di Milano. Un pezzo del corteo, che viene spezzato poi dalla polizia nel retro e nel centro, arriva fino alla nuova occupazione di Via Watteau che viene circondata dalla polizia, sparano lacrimogeni, però non riescono ad entrare, perché all’interno ci sono più di 2.000 compagni e compagne.”
Emanuela mi racconta di aver cominciato a militare all’interno del Leonka dopo lo sgombero del 1989 e ci rimase fino agli inizi del nuovo millennio. Ricorda chiaramente quella giornata:
“Il 10 settembre fu un rilancio del movimento milanese, che purtroppo era stato in qualche modo costretto a piegarsi quasi esclusivamente alla risposta alla repressione, proprio perché era sotto un attacco pesante da parte del governo della città. A partire dal 10 settembre, invece, ci fu una nuova spinta, un rilancio, una volontà di riproporre tutta una serie di temi e quindi un rilancio politico.
È vero che da tanto tempo eravamo sotto questa stretta repressiva, per cui alla fine non riuscivamo più di tanto a proporre politica. Invece il 10 settembre fu proprio lo spartiacque, nel senso che riuscimmo a rilanciare: si rilanciò l’attività politica, anche con la proposta di quel corteo, che era il corteo dell’opposizione sociale. Ci diceva una compagna carissima, le famose tre “A”: anticapitalismo, antifascismo e antimperialismo. Quella giornata fu davvero uno spartiacque per il rilancio dell’attività politica.
È stato fondamentale, perché altrimenti saremmo rimasti vittime, schiacciati sotto quella morsa repressiva che non lasciava spazio, che soffocava. Invece lì ci fu la svolta; poi, con il fluire del movimento e le sue contraddizioni, ci si rigenerò, con una serie di proposte interessantissime. Secondo me fu davvero decisivo.”
Il 1989 non era così vicino ma lo sgombero di quell’agosto, la resistenza e la distruzione del Leo prima della rioccupazione fu una cicatrice che ha segnato più di una generazione. Una rabbia che partiva da molto lontano e che proprio nel 1994 esplose definitivamente. Un fiume che rompe ogni argine e si riprende tutto lo spazio di cui ha bisogno.

Francesca era molto giovane nel 1994, adolescente nel 1989. Ha un vivido ricordo del sentimento, delle emozioni che deflagrarono.
“Una cosa che mi viene in mente è la sensazione che si respirava in piazza quel giorno, quando finalmente c’è stato lo sfondamento delle linee della polizia. Quello che volevo sottolineare di quella giornata è la componente emotiva. Cioè di come ci si è arrivati al giorno del corteo. Eravamo reduci da mesi di frustrazione e rabbia repressa. Io ricordo benissimo il giorno dell’abbattimento con la ruspa dell’ingresso, della facciata del Leoncavallo, dopo che si era provato a resistere per non farsi sgomberare. Ricordo cosa ho provato nel vedere la scritta ‘a Fausto e Iaio’ essere buttata giù da quella maledetta ruspa, e ricordo che ero seduta insieme ad altri compagni e compagne sul marciapiede, molti piangevano, sia di rabbia sia per il profondo dispiacere di vedere distrutto quel luogo. Perché è vero che i luoghi non sono rappresentati solo dalle mura e dagli spazi fisici ma anche e forse soprattutto dalle persone che li attraversano e li animano. Però non possiamo negare che gli spazi, i luoghi, così come i quartieri delle proprie città o anche la propria terra, i luoghi che si è abituate a vivere e che si sentono per questo familiari, siano molto importanti, incidano profondamente sull’esperienza emotiva e sui vissuti collettivi. Quel giorno quindi ricordo chiaramente l’odio nei confronti dell’amministrazione comunale e della polizia. Si erano permessi di portarci via e distruggere quel luogo così caro a molte e molti e così pregno di significato e del sangue di Fausto e Iaio. E poi, nei mesi successivi, lo spostamento in via Salomone, un posto davvero senza senso, sembrava più un esilio punitivo che il nostro spazio collettivo, nonostante ci fossero state iniziative di sostegno e momenti culturali importanti. E poi, ancora, l’ennesimo sgombero, pure da quel posto di merda di via Salomone. Quindi, quando arriviamo a quel settembre, c’era una rabbia accumulata, una voglia di menar le mani, una frustrazione fortissima, che per certi versi mi ricorda anche quello che si sta vivendo oggi, con forse però, allora, meno senso di impotenza. E allora, nel momento in cui ci fu la carica della polizia e poi lo sfondamento da parte dei compagni, che aprì la strada permettendoci di defluire dalla piazza, si respirò un senso di esaltazione. Finalmente la sensazione di potercela fare, di avere la capacità e la possibilità di incidere davvero sulla realtà, di reagire.”
“Quella giornata ha significato, a mio avviso, l’ultima parte di quel ciclo di lotte dei centri sociali a livello nazionale. E nonostante questo, il fatto che si sia riusciti a vincere con un governo che era di centro-destra, quindi con Maroni, che era ministro degli interni, e con la città di Milano, in mano alla destra, perché c’era il sindaco leghista, che era Formentini, e che non si sia riusciti poi a sgomberare quel posto, proprio perché la risposta è di una dimensione tale che è stato impossibile per le FDO riprendersi quello spazio lì.
La proprietà dello stabile era in mano ai Cabassi, sostanzialmente che sono uno dei gruppi immobiliari più grandi di Milano, non l’unico, ma uno dei gruppi più importanti, che c’entrano molto anche con il processo di devastazione a a cui abbiamo assistito e assistiamo. Quindi bisogna anche tenere conto che in quel periodo i centri sociali erano sì degli spazi dove si faceva cultura, concerti, etc., però erano anche dei motori d’iniziativa politica all’interno delle città. Quindi si cercava comunque di costruire conflitto all’interno della città, partendo dai diritti che venivano negati, partendo dai bisogni, dalle aspettative e dai desideri che in qualche modo dentro le città si muovevano.” (Paolo)
Franz all’epoca era un giovane militante del Leo, ricorda bene le sensazioni che accompagnava la sua generazione all’interno di quello spazio e del movimento a Milano:
“La situazione milanese, il Leoncavallo ma non solo il Leoncavallo, veniva da un’onda lunga: c’era stato lo sgombero del 16 agosto 1989 che, in qualche modo, aveva rimesso in moto una dinamica importante. Nei primi anni ’90 quella dinamica era stata molto positiva, di fermento, di coinvolgimento di persone. Sono stati anche anni in cui si sono modificati diversi riferimenti nazionali, teorici e culturali; anni, per certi versi, di grande sperimentazione.
All’inizio degli anni ’90, infatti, si sono aperti percorsi che hanno caratterizzato tutta quella fase: la messa in discussione di esperienze storiche, il tentativo di rinnovarsi, di rinnovare pratiche e linguaggi, pur con forze nuove e contraddizioni. Di certo si arrivava da una fase in cui c’era un’onda alta e continua che produceva e spingeva in maniera significativa. In questo senso, se vogliamo essere sinceri, possiamo dire che nessuno di noi si aspettava che quella giornata andasse esattamente come è andata; e secondo me chi dice che fosse prevedibile mente. Al tempo stesso, però, sapevamo di venire da una situazione di forza, di attacco e di rilancio.
Quello che si è creato in quel momento è stata una convergenza di più fattori, di più energie che si erano messe in moto in quegli anni e che avevano rimescolato le carte, coinvolgendo un sacco di ragazze e ragazzi nuovi. Un elemento centrale, materiale e simbolico, era il percorso del Leoncavallo che, dall’89 fino a quelle giornate del settembre ’94, ha rappresentato un perno significativo. Non era l’unica realtà — e per fortuna, sia a livello locale che nazionale, c’erano tante esperienze in crescita — ma sicuramente in quel momento il Leoncavallo era un riferimento importante.
Tieni presente che anche chi, come me nel ’94, aveva 21 o 22 anni, pur essendo molto giovane, in realtà aveva già vissuto alcuni anni di militanza. Io, ad esempio, erano 5 o 6 anni che stavo dentro al mondo dei centri sociali e al Leoncavallo. Chi ci stava, se avesse voluto, si sarebbe trovato molto coinvolto e dentro le cose.
C’era questo “vantaggio” di essere, per certi versi, pischelli, ma con tutta la cazzimma, la voglia e la fotta di fare, di attaccare, di esserci; e al tempo stesso non eravamo relegati ai margini, ma parte integrante. Racconto sempre un aneddoto per chi ama la storia: nel 1990, dopo lo sgombero dell’89 e con il Leoncavallo al centro di mille cose, i compagni più grandi di me mi mandavano da solo alle riunioni del Coordinamento Internazionale Antinucleare e Antimperialista, che era l’ambito nazionale di riferimento per molte realtà. Io ero dentro da appena un anno, un anno e mezzo, eppure c’era quel livello di fiducia, di disponibilità e di apertura che permetteva anche situazioni di questo tipo.”
Le barriere generazionali spesso erano abbattute, succedeva a Roma come a Milano, la fiducia si dava incondizionatamente e nessun era troppo giovane da poter essere escluso. Non c’era granché paternalismo, non che non ci fosse mai, ma sostanzialmente in quegli anni, era tutto in discussione compresi i rapporti di forza interni.
Bombo, era un giovane studente universitario nel 1994:
“Il 10 settembre 1994, per me, è stata la giornata in cui volevo assolutamente esserci, perché ero assolutamente frustrato all’idea che la repressione potesse cancellare uno spazio al quale io tenevo, perché storicamente, già all’89, me l’ero segnata un po’ come cosa. Nell’89 ero stato spettatore da lontano e negli spazi ci andavo ogni tanto. Nel 94 andavo al Leoncavallo, perché dal pomeriggio erano aperti, poi la sera c’erano un sacco di iniziative. Quindi tutti i giorni c’era l’interesse anche a star lì dal pomeriggio, perché così non pagavi la sottoscrizione la sera e io non avevo una lira, proprio niente. E quindi stavo lì tutti i giorni perché lo spazio era sotto sgombero. A quel punto io come milanese attivo diciamo, mi sentivo coinvolto nella vita dei centri sociali, anche solamente da fruitore, perché non facevo le assemblee dentro gli spazi, io facevo politica all’università. Quel momento era il momento di dire avete rotto veramente il cazzo, e non è possibile che tutte le nostre istanze vengano semplicemente calpestate, ignorate da una destra leghista, che era infima, il peggio che potessi sognare per Milano, peggio che mi potesse capitare, poi invece la storia ha provato che si poteva ancora scavare. Però il 10 settembre era il momento della frustrazione massima, della rabbia. Nel mio caso non ero particolarmente conosciuto da quelli che stavano dentro gli spazi, perché al massimo mi avevano visto tutte le serie lì con uno dei tanti che arrivano, pagano, vedono il concerto, stanno là con gli amici, oppure al Leoncavallo, magari mi hanno visto un po’ di più perché stavo là tutti i giorni a aspettare lo sgombero, etc. Però è appunto uno sconosciuto, però mi sono prestato immediatamente anche per partecipare eventualmente ad azioni di disturbo durante il corteo. Volevo essere parte dello scontro, perché mi sentivo attaccato come parte di una comunità che viveva dentro Milano, che ha la comunità degli autonomi, dei centri sociali, ovviamente anche gli anarchici, personalmente mi trovavo più sulla sponda del Leo in quella fase storica, rispetto che ne so a Conchetta, dove però, per esempio, fu la realtà che mi ha offerto un sacco di spunti culturali, quindi c’era una distinzione nella mia testa, per cui il Leo era quello più comunista, politico, in un certo modo, anche un po’ vecchia maniera, se vogliamo.”
Blicero, altro compagno che dalla seconda metà degli anni 90 diventerà un militante del mondo antagonista che ruotava intorno ai centri sociali, ha dei ricordi piuttosto vividi di quella giornata:
“Il 10 settembre io vado come uno studente che diceva: “Il corteo l’hanno chiamato tutti, ci vanno tutti, è un simbolo”, come dire, per questi luoghi che io sto conoscendo in cui succede una cosa che non mi sarei mai immaginato potesse succedere così. Perché anche per i ragazzi della mia età, all’inizio degli anni ’90, alla fine degli anni ’80, quelli che partecipavano a qualsiasi esperienza sociale conoscevano quelle storie; per gli altri, la partecipazione era comunque nella sezione del PCI, piuttosto che della FGCI locale o piuttosto che in compagnia.
Per me, invece, la politica la facevo a scuola con i collettivi; in realtà, nella mia scuola io ero praticamente il collettivo. Quindi vado, bene.
In realtà moltissime persone non erano preparate a quello che è successo, perché non sapevano. Cioè, nel senso: chi faceva parte dei giri militanti sapeva che cosa sarebbe successo, perché ovviamente era stato preparato; ma chi non faceva parte dei giri militanti sapeva solo che era un momento in cui, come dire, schierarsi da un certo lato o dall’altro di un certo modo di vivere la città, di vivere i luoghi della città, le aggregazioni delle persone nella città.
Quello che succede è che, se tu arrivi a partecipare a questo corteo, l’impatto è fortissimo. Perché una partecipazione di 20.000 persone, all’epoca, non è che se ne vedessero molte, di manifestazioni così grandi: i cortei erano abbastanza ridotti nei numeri, almeno rispetto a quelli che abbiamo poi vissuto negli anni successivi, tra la fine dei ’90 e l’inizio dei 2000. Quando arrivavi a fare un corteo studentesco con 4 mila o 5 mila persone, era un enorme successo, almeno a Milano.
Quindi vedere un corteo di 20.000 persone, tutte preparate, militanti, arrivate da tutta Italia, è stato notevole come impatto.
E la cosa che almeno io ricordo è sia l’impatto su di me del momento degli scontri, che è stato veramente un po’ dicotomico: da un lato mi sono spaventato moltissimo, perché ovviamente non ero preparato per quella roba lì. Mi ricordo che ero lì con una mia amica e con un altro po’ di persone, ed è stata la prima volta in cui ho dovuto ragionare su quale via di fuga prendere, quale strada fare per non rimanere incastrati nel delirio e via dicendo.
Dall’altro lato c’era anche una forma un po’ giovanilistica, un po’ esaltata, per quello che stava succedendo. Ti rendevi conto che eri tu il padrone della strada: quello che stava succedendo significava che eri tu a decidere cosa accadesse nelle strade della tua città, e non c’era nessun’altra autorità in grado di limitare la tua scelta.
E quindi non era solo uno slogan dire “siamo noi per la città”, “siamo noi i padroni della città”, “la città vive solo tra noi”, ma era un fatto concreto di presenza in piazza. E questo era chiaramente un aspetto esaltante per una persona che si affacciava per la prima volta alla militanza e alla partecipazione in un certo tipo di area, senza esperienze precedenti.”
È innegabile che le storie dei movimenti antagonisti siano lastricati di date e momenti, in un senso e nell’altro, che segnano i percorsi sia politici che personali. In questo dedalo si inseriscono le storie di molte e molti, giovani e meno giovani, che in quegli anni si affacciano alla politica o hanno già alle spalle anni di lotta e militanza. Il 10 settembre lo è stato. Così come quell’immagine del tetto del Leo del 1989, è stata la scintilla del “possibile”: che ha portato nuovi e nuove militanti all’interno di un mondo che stava cominciando a costituirsi rete e movimento. Con tutti i limiti eventuali. Ma dalla prima assemblea nazionale dei centri sociali, “Contro i padroni della città” sono passati cinque anni e non a caso la partecipazione degli spazi non milanesi sarà piuttosto cospicua. Milano stessa, del resto, aveva già alle spalle occupazioni e sgomberi: Conchetta, anch’esso sgomberato nel 1989 e poi rioccupato. C’era Pergola occupata nel 1991. C’erano Torchiera e Transiti. C’era il Garibaldi, il Torricelli e anche Vittoria. Oltre ad altri spazi minori. Un mondo che stava allargandosi e prendendo spazio nella città a macchia d’olio così come stava accadendo a Roma o altrove.
“C’era anche Garigliano, per esempio. C’era Garigliano che stava accanto a Pergola, e anche quello era un altro punto di riferimento. All’epoca la Rock Squat era più una realtà abitativa. C’era un baretto che a volte apriva e a volte no. Pergola era famosa per il clubbing, portarono suoni e artisti internazionali all’epoca sconosciuti. Al Conchetta all’epoca se facevi lo scemo non si sa come ne saresti uscito e se con le gambe tue. Al Leo erano più inquadrati politicamente, e non è che volessero risultare simpatici. Non c’era tutta questa attenzione a essere accoglienti: nessuno ti considerava, e non c’era nessuna intenzione di fare proselitismo con la gentilezza. Dovevi guadagnarti l’accesso, conquistare la fiducia, e accettare le regole del gioco. Non è che potevi stare lì solo perché ti stava simpatico qualcuno: venivi perché volevi fare politica, e quindi dovevi prepararti a fare politica e conflitto. E il conflitto non era solo con l’esterno, iniziava già dentro, perché le posizioni si costruivano proprio attraverso il conflitto.
Questo era il percorso, ed io lo accettavo. Il Leo era la voce più forte, perché aveva la volontà di comunicare continuamente con l’esterno ed essere una presenza politica in città.
Altri spazi invece avevano meno interesse a essere politici e più a costruire percorsi culturali: controcultura, come faceva Decoder, oppure musica e clubbing, aprendo fino a notte fonda e portando i suoni che arrivavano da Londra. L’idea era che Milano non fosse più marginale e provinciale, ma cominciasse a collegarsi al resto d’Europa. C’era quindi chi guardava ai movimenti underground europei, come i rave. Questo, per esempio, lo diceva Conchetta non il Leoncavallo. Per il Leoncavallo la tecno era “la musica dei fasci, non ce ne frega niente”: lì c’erano ancora i cantautori negli anni Ottanta.” (Bombo)
Ovviamente le differenze generazionali, così come avere o no una lunga militanza alle spalle, determinano la lettura di precisi momenti storici. Perché è abbastanza oggettivo che ciascun di noi è fatto dall’esperienze che ha vissuto. Quindi non sorprende che chi aveva alle spalle anni di militanza ha una lettura differente di chi all’epoca aveva più o meno vent’anni.
“Averla vissuta, quella cosa lì del ’94, ci ha dato l’idea che, oh, se ci gira il cazzo, vinciamo. Se ci rompono i coglioni, possiamo vincere anche noi. La polizia a un certo punto durante gli scontri è dovuta scappare via, capisci? Sono cose che ti fanno dire: “Allora, oh, non ci dovete rompere il cazzo, perché poi sono problemi.” Per chi ha ventun anni quello è un boost di energia pazzesco: lo leggi così, lo vivi così.
Poi, chiaro, non è esattamente vero, non è proprio così semplice. Però entra nel tuo meccanismo mentale: “Noi siamo nel giusto. In questa città siamo noi i migliori, siamo noi a fare cultura giovanile, siamo noi a fare politica dal basso, siamo noi che possiamo attivarci.” Poi, certo, col tempo cambia. Dopo quattro anni, ero già lì a fare assemblee, a occuparmi di gestire il posto, a mettere insieme le cose da dentro. Prima invece agivo soprattutto all’università. Non che lì mancasse il fermento: a Scienze Politiche, dove stavo, c’erano quelli del CPU, che erano collegati con Garibaldi e con Transiti, ancora più hardcore sul marxismo-leninismo. Non mi calcolavano perché non ero abbastanza marxista-leninista: dovevi aver passato l’esame su Il Capitale, altrimenti non potevi nemmeno parlare. In parte Transiti erano anche compagni che venivano dal Leoncavallo, ma che poi si erano staccati.” (Bombo)
“Quel giorno segnò un punto di svolta: i centri sociali a Milano diventarono una realtà conosciuta da tutti e frequentata da molti di più rispetto a prima. Una volta che se ne parlava, si creava un’attrattiva anche all’interno delle scuole e, secondo me, anche nei circoli militanti legati ai partiti, che prima non li frequentavano molto. Da lì quei luoghi cominciarono a essere vissuti da tante persone, soprattutto giovani, che dopo averli conosciuti volevano fare le proprie esperienze e autodeterminarsi, prendendo spazi e differenziandosi: “noi le cose le facciamo in un altro modo, le facciamo così e non cosà.
Il Leo rimaneva uno spazio fortemente simbolico. Io stesso, per dire, anche dopo il ’94 e fino al 2004, per due, tre, quattro anni ho frequentato molto il Leoncavallo con il mio gruppo di amici. Stavamo costruendo esperienze come un nostro collettivo, ma mai mi sarei sognato di dire: “proviamo a entrare nel collettivo del Leo”. L’ipotesi era piuttosto: mi faccio il mio collettivo, mi prendo il mio spazio e faccio le cose a modo mio. Non potevo mettermi in mezzo a loro: avevano la loro storia, e io non c’entravo nulla con quella storia. Però riconoscevo che quello che facevano aveva un valore. Potevo ispirarmi, imitarlo, criticarlo, usarlo come spinta per fare cose diverse. Allo stesso tempo sfruttavo la forza che quel posto rappresentava, anche un po’ come scudo, per poter portare avanti esperienze più piccole, con meno dimensione e meno forza.” (Blicero)
“Credo che, per certi versi, quella giornata sia stata la punta massima dal punto di vista simbolico e dell’immaginario. Ma non credo si possa ridurre tutto a un singolo momento. La forza di quegli anni è stata distribuita in tante altre cose, alcune meno evidenti, forse meno capaci di imprimersi nell’immaginario, ma altrettanto significative.
Un esempio: culturalmente, io non sono mai stato molto portato per questo, ma riconosco quanto fosse importante, in quegli anni, lo sviluppo del lavoro attorno alla comunicazione, le prime reti di connessione, internet, ECN e quant’altro. Non ha avuto la stessa rappresentazione potente di quella giornata, ma ha segnato significativamente la capacità di quegli anni di essere conflittuali, perché aggiungeva strumenti e visioni prima inesistenti.
Credo sia importante ricordare queste cose. Sintetizzare tutto in singole occasioni o date può avere un’utilità, soprattutto sul piano emotivo: ci sono percorsi che si costruiscono non solo con la razionalità, ma anche con l’emozione. Io stesso sono un caso particolare: mi sono avvicinato al mondo della politica e dei centri sociali “da vecchio”, non per i concerti, non per le serate, non per le canne o per le ragazze. Mi interessava la politica. I miei coetanei invece si avvicinavano gradualmente, attraverso la musica, le amicizie, la moda, tutti elementi più personali ed emotivi. Queste dinamiche non vanno dimenticate: sono fondamentali.
Il 10 settembre ’94, per esempio, ha mostrato la capacità di far convergere un piano politico razionale — con un programma, dei punti di riferimento — e un piano emotivo, collettivo. Io ero in coda nel servizio d’ordine, il ruolo più noioso del mondo, eppure dopo la prima carica mi sono trovato circondato da decine e centinaia di persone che provavano la stessa rabbia, la stessa frustrazione emotiva che provavamo noi. Quel giorno, il percorso politico razionale e quello emotivo si sono incontrati, trascendendo il corpo dei militanti e coinvolgendo decine di migliaia di persone che dicevano: “Basta con questa situazione”.
Quando queste due dimensioni si connettono, il risultato è potentissimo. Anche il Leoncavallo, che negli anni era stato distrutto, in quel contesto riprendeva vita: diventava di nuovo un punto di riferimento, un luogo simbolico che dava forza e identità alle persone coinvolte.” (Franz)
A Milano come altrove, dalla metà degli anni ’90 succede che si affaccia una generazione nuova, che non ha continuità né una storia condivisa con i pezzi precedenti.
“Certo, magari c’è ancora il mito di quelli di prima: leggendo i dibattiti sull’autonomia, immaginando cosa significhi autogestione, autonomia politica, costruzione di spazi… Ci si lascia affascinare — in alcuni casi anche dall’estetica di quell’epoca — e ci si mette del proprio, iniziando a creare spazi nuovi. Ovviamente basandosi anche sulla forza di quel momento storico.
Per questo penso che moltissimi militanti dei primi anni ’90 abbiano partecipato attivamente al corteo del 10 settembre, anche nel modo in cui si è sviluppato: perché sapevano che era un’occasione per dire “ci siamo, e possiamo esprimere una certa potenza, una certa forza”.
Il messaggio era chiaro: guardate che se venite a romperci nei nostri territori, nei nostri spazi, dovete fare i conti con quelli che quel giorno c’erano. Quante giornate così volete a Milano?” (Blicero)
“In realtà, quella giornata nasce da tutto quello che stava succedendo in quegli anni. Poi, certo, dipende dal punto di vista. Se devo raccontare la mia esperienza personale, quegli anni sono stati importanti, anche se forse alcune questioni sono sfuggite. La vita nel centro sociale era un po’ divisa in cerchie: ricordo che frequentavo gruppi diversi, ciascuno faceva il suo, ma comunicavano poco tra gruppi.
Ricordo anche i ragazzi più giovani: stavano lì, frequentavano, facevano un po’ da manovalanza tra una canna e l’altra, ma erano meno coinvolti nei ragionamenti politici. Certo, era anche una questione di delega, ma piano piano questo ha creato delle fratture all’interno, almeno del Leoncavallo. Proprio per questo, come dicevamo all’inizio, oggi lo spazio appare svuotato di senso politico, ma forse è un processo iniziato molti anni fa, quando vari collettivi lo hanno progressivamente lasciato.
Questo è avvenuto perché, volontariamente o meno — spesso queste dinamiche sono inconsapevoli — si è creata una difficoltà a mantenere un discorso politico aperto e orizzontale tra i diversi collettivi e le soggettività che in quel periodo vivevano lo spazio. Forse di questo potremmo parlare oggi, per evitare di rifare gli stessi errori.
Io ricordo bene la sensazione di essere parte di un luogo, ma a volte di non avere chiari i meccanismi e le scelte politiche. Oggi, almeno su questo, c’è più attenzione. Tra l’altro, era l’anno della maturità. Io non facevo parte del gruppo di gestione, del gruppo politico, quello che per noi era il “gruppo dei Grandi”, quelli che decidevano, che organizzavano tutto. Tu andavi in piazza affidandoti a loro. Quel giorno ricordo di essere andata in piazza convinta, ma senza sapere cosa sarebbe successo.
Ricordo, per la prima volta, le “tute bianche”: un modo di scendere in piazza inedito, che non avevamo mai visto, e che in quel momento ha avuto un certo impatto proprio perché era nuovo e inaspettato, almeno per me. C’era tantissima gente, e non sapevamo bene cosa sarebbe successo. Non sapevo nemmeno che i compagni avrebbero tentato di sfondare, e quando è successo si è creato il caos. La sensazione predominante era quella di essere in pericolo: la polizia era piuttosto arrabbiata.
Per me fu un primo assaggio di quello che poi sarebbe successo a Genova: avevi la sensazione di una vera e propria caccia all’uomo. Bisognava scappare, perché una volta fermati sarebbe arrivata la vendetta, la rappresaglia. Ricordo di aver corso insieme a tutto il gruppo che poi si è barricato dentro il Leoncavallo, dove siamo rimasti ore, tutti fermi in silenzio. Io ricordo la tensione, perché intorno c’era la polizia e non sapevamo se sarebbero entrati. Non c’erano nemmeno i cellulari: io ero uscita di casa e sono rimasta fuori fino a sera, finché la polizia non se ne andò e noi potemmo uscire.
Ci siamo barricati, e io mi sono ritrovata lì dentro. Ero con il gruppo più organizzato: non con la maggior parte degli altri, ma mi sentivo parte del Leoncavallo, e stare con i miei compagni era, per me, il modo migliore di difendere lo spazio.” (Francesca)
Ci sono, come dicevo prima, momenti e momenti in ogni Storia. Così come nel 1989 e nel 1994, anche questa volta uno sgombero di uno spazio può generare quel rilancio che sistematicamente in passato è avvenuto. Lo sgombero del 1989 portò al creare anzi a ufficializzare il tentativo di fare rete tra i vari CSOA nati in quegli anni con la famosa assemblea nazionale, la prima dei centri sociali, “Contro i padroni della città”, lo stesso slogan per la manifestazione del 6 settembre 2025. Come ricordava Paolo, nel 1994 fu lanciata la manifestazione dell’opposizione sociale, un respiro più ampio e che non si fermava alla questione Leoncavallo. Idem era successo come ho appena scritto nel 1989. Lo sgombero e le macerie, invece di indebolire, diedero spinta ed energia per alzare il livello dello scontro.
“Noi facevamo le assemblee al Leoncavallo, che era devastato perché in parte era stato raso al suolo dalle ruspe. Dentro le macerie, però, alcuni spazi erano riusciti in qualche modo a essere ripristinati. Alle assemblee, ogni settimana, partecipavano 400-500 compagni e compagne: una massa critica di quel genere dentro Milano. Riversare quella forza dentro le iniziative, non solo legate ai centri sociali ma anche a iniziative conflittuali e politiche, significava davvero potenza. Forse questo ha contato più nell’immaginario collettivo che il solo ’94, che è stato poi, si può dire, un moto di rivalsa nei confronti di un tentativo di umiliare quell’esperienza.
Perché il potere non si limitò a uno sgombero semplice. Il Leoncavallo venne sgomberato, ma lo stesso giorno ci spostammo in un altro spazio, in Giambellino, che sembrava inviolabile. Invece, ad agosto del ’94, la polizia decise di sgomberarlo anche lì, in modo pesante: arrivarono con blindati, con modalità militari, impedendo anche le operazioni più semplici di vita quotidiana nello spazio.
Ne seguì un mese in cui i compagni del Leoncavallo cercarono di essere presenti nella città, ma ogni volta venivano circondati dalla polizia. Era una situazione penosa e umiliante, che però ha costruito nella testa di tutti, anche di chi aveva meno contatto diretto con quei luoghi, la consapevolezza che “questa cosa è inaccettabile, bisogna dare una risposta”.
Da lì nasce la risposta del ’94: quella manifestazione era una manifestazione incazzatissima, non festosa, chiaramente. Questo è ciò che rimane impresso: la giornata di quel momento storico va evidenziata proprio per questo.” (Paolo)
“Tra l’altro, arriviamo in via Watteau proprio perché non c’era più alcuno spazio di agibilità. Si decise quindi per l’occupazione, fissando la data del 10 settembre. Una mossa quasi spontanea: la manifestazione era blindatissima e non c’era nessuna via di scampo. Nei mesi precedenti, le provocazioni della polizia erano state tantissime in tutti i sensi.
Alla fine, quell’occupazione fu un momento liberatorio per tutti, quasi catartico. Aveva il potere di creare un riscatto, dopo tutte le vessazioni subite nei mesi precedenti, ma anche negli anni precedenti, da quando cioè il Comune era passato in mano alla Lega.
Devo dire che, alla fine, via del Leoncavallo venne recuperata dalla polizia, ma ci vollero davvero molto impegno e resistenza da parte nostra. Nonostante tutto, nella difesa di quello spazio riuscimmo a rendere la vita abbastanza difficile alla Lega.” (Emanuela)
“Dopo lo sgombero del ’89, tre quarti delle scuole milanesi si mobilitarono in solidarietà con il Leoncavallo, qualcosa di impensabile fino a pochissimo tempo prima. Le facoltà occupate in tutta Italia, la connessione che si creava tra soggetti nuovi — che per età magari non avevano riferimenti storici di chi proveniva da percorsi precedenti — e chi invece aveva esperienza, si trovavano insieme, sui banchi di scuola o nelle università, a mettere in rete lotte e occupazioni.
Quella energia è stata potente e, per certi versi, la giornata del 10 settembre ’94 è stata molto frutto di questa capacità di costruzione e sedimentazione, che ovviamente affonda le radici negli anni precedenti. Partendo dallo sgombero Leoncavallo, tutto il percorso degli anni ’90, si è consolidata dentro il Leoncavallo — e, per fortuna, anche in molte altre realtà — un’idea chiara: i centri sociali devono essere strumenti potenti, ma anche strumenti di allargamento. Non si limitano a rivendicare la propria alterità, la propria diversità, il diritto di esistere; devono usare queste basi per uscire fuori, mettere in moto altro, coinvolgere anche chi è all’esterno.
Ovviamente, dichiararlo non significava automaticamente riuscire a farlo o raggiungere risultati concreti. Però questa prospettiva era molto presente, e noi vedevamo, anche nelle piccole situazioni e nelle azioni più quotidiane, che contribuivamo a far muovere qualcosa al di là di noi, al di là dei centri sociali. Si creavano intersezioni con il mondo del lavoro, con i movimenti studenteschi, e così via.
La scelta fu quindi molto consapevole: lo sgombero del Leoncavallo doveva diventare uno strumento per rilanciare i movimenti, non un fine in sé, non solo per rioccupare lo spazio o preservarne la storia. La storia del Leoncavallo doveva essere messa al servizio di qualcosa di più ampio.” (Franz)
Ed è quello che rischia di aver rimesso in moto la destra di governo. E che ci auguriamo che la destra abbia rimesso in moto perché Milano, e non solo, ne abbia bisogno. Stretta nella morsa della speculazione immobiliare, del grande capitale e della retorica della Milano inclusiva (se hai i soldi) e laboriosa del centrosinistra di Sala, potrebbe essere la prima pietra per rilanciare un’idea diversa di città e come viverla. Anche se il processo messo in moto sembra irreversibile non ci si può arrendere e continuare a farsi erodere spazio pubblico. E forse inconsapevolmente Meloni e soci, hanno riacceso quella fiammella che aspettava solo una scintilla.
“Quando si parla dei centri sociali e del loro rapporto con la città e con le lotte, spesso ci si dimentica che si è sempre trattato di un rapporto bidirezionale, capace di generare sinergie e nuove generazioni di compagne e compagni.
Sarebbe difficile comprendere tutta l’attenzione suscitata intorno al Leoncavallo dopo la resistenza allo sgombero del ’89 senza considerare il movimento studentesco del ’85, le lotte antinucleari del ’86 e le occupazioni di spazi sociali a Milano tra il ’86 e l’88, come quelle di Via Porpora, Via Quadrio, Via Bernina, Via Lancetti e Viale Jenner.
Allo stesso modo, sarebbe difficile comprendere la partecipazione al corteo del 10 settembre 1994 senza considerare le lotte universitarie della “Pantera” nel 1990 e le mobilitazioni contro la guerra del 1991.
Molti e molte di coloro che hanno partecipato a quelle lotte cosa facevano dopo le iniziative politiche? Cercavano luoghi dove socializzare con altri ed altre, perché nella vita, giustamente, si vuole cambiare subito, creare legami umani prima ancora che politici. Anche per questo i centri sociali sono stati formidabili luoghi di interazione tra soggetti diversi. Se quel luogo veniva sgomberato, per chi lo frequentava era come se gli fosse stato rubato un pezzo della propria vita: non si poteva fare altro che scendere in piazza per provare a riprenderselo!” (Paolo)
“L’innovazione politica e culturale, la vivacità della socialità e di uno sguardo nuovo sulla città sono stati elementi di cui il Leoncavallo, ma anche altri centri sociali, si sono fatti agenti e portatori. E soprattutto – cosa che forse non ho sottolineato abbastanza – l’importanza di aver creato la possibilità, all’interno di una città già segnata dalla speculazione edilizia e dal diktat del consumare e spendere, di vivere spazi liberati. Luoghi in cui si aveva la sensazione di essere svincolati da un uso legalitario, normativo e punitivo dello spazio. Questo ha permesso l’espressione di una grande creatività e, soprattutto, la possibilità di sperimentare liberamente.
Quello che posso aggiungere io, filtrato dal mio personale punto di vista, riguarda invece un aspetto che forse è stato trattato con meno attenzione: le relazioni interne. È un tema che può sembrare secondario, ma che in realtà ha avuto conseguenze importanti. A un certo momento, infatti, si è creata una frattura – o forse c’è sempre stata – tra chi frequentava quel luogo non solo come fruitore, ma anche come forza lavoro quotidiana, e una parte più dirigenziale e intellettuale che, in buona fede forse, o forse no, tendeva a dare per scontate alcune cose. Questo ha fatto sì che, nelle dinamiche di potere, pesassero soprattutto l’esperienza, l’età o la capacità dialettica, oltre al formarsi (come accade spesso nei grandi gruppi) di sottogruppi più o meno espliciti intorno a una leadership.
Chi possedeva questi strumenti aveva inevitabilmente più voce in capitolo, mentre chi avrebbe potuto portare idee creative e interessanti faticava a emergere, sia per difficoltà personali nell’esprimersi, sia per una mancanza di attenzione e cura da parte dei compagni più esperti e navigati. Parlo anche di piccoli collettivi, magari marginali o non particolarmente influenti. Oggi mi sembra che, almeno in parte, ci sia maggiore consapevolezza dell’importanza di prendersi cura di queste dinamiche: prestare attenzione a come ci si relaziona, evitare che si formino gerarchie implicite che finiscono per togliere vitalità e ridurre lo spazio delle voci meno forti.
Se ci penso, questo è stato uno dei limiti dell’esperienza del Leoncavallo in quel periodo. A fronte di una grande potenzialità, c’è stata l’incapacità di valorizzare appieno la ricchezza delle differenze, le soggettività politiche diverse che convivevano in quello spazio. Ed è proprio lì che si è persa una parte di quella forza collettiva che pure era presente all’inizio dell’occupazione di via Watteau nel ’94. È anche vero che, in seguito, anche per questi motivi, sono stati occupati altri spazi collettivi che hanno avuto un importante impatto su Milano: il Deposito Bulk, la Breda occupata, She Squat, il Cantiere… anche il centro sociale O.R.SO era stato occupato da fuoriusciti dal Leo.” (Francesca)
Per questo 6 settembre del 2025, 50 anni dalla nascita del Leoncavallo, tra i comunicati di convocazione alla manifestazione leggo “Scenderemo in piazza contro lo sgombero del Leoncavallo per rivendicare lo strumento dell’occupazione e perché crediamo che difendere la memoria militante del Leoncavallo significhi difendere gli spazi e le lotte di oggi.” E ancora “Vogliamo dimostrare che Milano non è tutta come vorrebbero loro: una città grigia di cemento, acciaio e vetro, su misura di ricco. La Milano che chiamiamo in piazza è viva, colorata e moltitudinaria. La Milano degli Spazi Sociali, una Milano capace di dire a gran voce e senza timore: “Questa città di chi pensi che sia?”
Bella domanda a cui dovremmo rispondere tutti e tutte, perché siamo noi ad abitarle, viverle, attraversarle per lavoro o altro, a farci politica, perché se Milano esclude, altrove non è diverso, solo semplicemente meno sistematizzato e poco più accessibile ma è solo questione di tempo. Siamo sempre intorno all’uso e abuso dello spazio pubblico sempre meno pubblico e sempre più privato. Siamo arrivati al paradosso che la criminalizzazione delle occupazioni abitative e non, da anni hanno sfondato anche tra le “anime belle” che votano il centrosinistra. Come se fossero o si sentissero i legittimi proprietari degli spazi che vengono occupati. Mentre della privatizzazione dello spazio che una volta era “nostro”, parchi e piazze, tutto messo a profitto se e quando è possibile, viene digerito come opportunità e apertura. Ma lo spazio pubblico non è semplicemente un luogo dove le persone si incontrano o soprattutto consumano, ma rappresenta un contesto in cui si intrecciano relazioni di potere e le forme di resistenza, oltre alle dinamiche di inclusione ed esclusione. Esso va oltre la dimensione fisica: diventa ambiente sociale e simbolico in cui le persone escono di casa per socializzare, partecipare ad attività piacevoli e costruire relazioni. E sabato 6 settembre è il momento e l’occasione per riprendere parola, metterla a fuoco con maggiore lucidità, far confluire nella piazza pezzi diversi di Movimento anzi, per citare il passato, tutte quelle soggettività politiche che compongono l’opposizione sociale. Perché esiste ancora, ha cambiato connotati, non abita più negli stessi quartieri di 30 anni fa, probabilmente si muove anche su altre corde ma esiste. E da lì bisogna ripartire, per il Leoncavallo e la sua Storia ma soprattutto per quello che ancora deve accadere. Per guardare avanti. Difendere uno per difendere tutto. Inizio moduloFine modulo
Scritto tra il 2 e il 4 settembre 2025.
Grazie a Paolo, Emanuela, Francesca, Franz, Bombo e Blicero. E a Marti, per avermi aiutato.

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