di Fabrizio C. – 1 settembre 2025
Truce Baldazzi forse non era ancora nato, né cantava “Vendetta vera, non finirò in galera”, perché erano gli anni a cavallo tra gli ’80 e i ’90 e, nel quartiere nero di Talenti, in via Luigi Capuana, campeggiava una scritta enorme: “Erba roba da conigli”, con tanto di disegno della testa di un coniglio. Lo slogan, coniato dalla destra missina, si trovava sui muri di alcuni quartieri “neri” romani dove la destra aveva un minimo di agibilità.
Era appena stata promossa la legge Iervolino-Vassalli (1990), che distingueva tra droghe leggere e droghe pesanti, facendo infuriare i proibizionisti, sebbene non liberalizzasse nulla. Quello slogan, però, non appartiene soltanto al Novecento: la destra ex missina, che oggi si fa chiamare Fratelli d’Italia, lo riesumò pochi anni fa (2016) per lanciare una campagna chiaramente evocativa: “Oggi come ieri: erba roba da conigli”.
Ai tempi, ogni volta che vedevo quella scritta pensavo: “Ma perché i fascisti parlano d’erba quando a Roma è praticamente introvabile? Tutti fumano cioccolato, che si squaglia solo con la fiamma ossidrica”. Ma ancora pochi anni fa, per la giornata mondiale di lotta alla droga (che non so quanti sappiano cada il 26 giugno), lo stesso slogan è stato rilanciato dai giovani Fratelli d’Italia.
Così non sorprende che quella stessa destra ex missina, che proprio in quegli anni muoveva i primi passi in politica – basti pensare a Giorgia Meloni, eletta nel 1996 presidente nazionale del Fronte della Gioventù – oggi, tra le iniziative “contro la droga”, non si limiti a rivedere il codice della strada per punire più severamente chi viene trovato positivo alla guida, né semplicemente ad inasprire le pene per consumo o spaccio. No. Riescono addirittura a mettere fuori legge il CBD, sostanza che nessun organismo scientifico riconosce come stupefacente e che non crea dipendenza, a differenza di caffè e sigarette. Ma la propaganda è propaganda: il CBD deriva dalla cannabis? Sì? Allora è droga. Quindi, essendo erba, è “roba da conigli”.
Prima ancora, la stessa destra ex missina aveva trovato nei rave la prima emergenza da dare in pasto al proprio popolo (o follower): un decreto che avrebbe dovuto impedire nuovi assembramenti e feste techno. Così non è stato, e – per fortuna – quella legge non ha mai prodotto condanne. Al massimo, in alcuni casi, ha scatenato i manganelli delle FdO, ma, non essendoci nessuna vera emergenza, se n’è quasi smesso di parlare. Le feste, seppur più piccole, vanno avanti.
Ma perché proprio i rave? Gridare all’emergenza permanente è da sempre uno strumento di governo. Agitare lo spettro dei rave, per qualcuno, è anche un modo di fare i conti col proprio passato: una vendetta postuma contro quei “maledetti antagonisti”, “zecche” e quant’altro, che dagli anni ’90 in poi non solo aggregarono un numero considerevole di ragazzi e ragazze, ma “defascistizzarono” e ripulirono anche certe presenze non gradite, legate alla destra di strada, fatta di celtiche e teste rasate.
“L’utilizzo della musica techno aveva una sua funzione: riportare un po’ di novità e creatività (come momento di rottura dal consueto suono «sociale») dentro il discorso dell’autogestione e del controllo del territorio all’interno delle situazioni politiche. La nostra aspirazione era quella di strappare al «muretto fascista» il ragazzo di periferia, indottrinato alla cultura dell’intolleranza e della violenza, che era attratto da questo tipo di musica. Ricordo che all’inizio del movimento dei rave illegali arrivava gente con i bomber con sopra cuciti gli scudetti dell’Italia, ragazzi e ragazze che appartenevano a questo tipo di comunità di borgata, cresciuta a techno e saluti romani. La nostra sfida è stata quella di presentare a questi ragazzi un’alternativa alla discoteca, mostrando direttamente sul campo come si organizza dal basso un party di elettronica.” (da Rave in Italy di Pablito El Drito)
E poi, ultimo ma non meno importante: il centro sociale Leoncavallo. Non un centro qualsiasi, ma il CSOA più famoso e storico, che per decenni ha tenuto sotto scacco la destra lombarda, allevandola nel rancore e nel risentimento. Un valore simbolico, per loro, non indifferente.
Quando, nel 1989, Paolo Pillitteri fece sgomberare il Leoncavallo, eravamo al tramonto della “Milano da bere” socialista. Poi, nel 1994, arrivò Formentini, un leghista della vecchia scuola: dal suo sgombero nacque l’occupazione di via Watteau, sgomberata solo l’altro giorno, dopo 31 anni. Anche qui, da La Russa a Fidanza, fino alla stessa Meloni, la destra lombarda è cresciuta in una città dove l’agibilità politica era ridotta al minimo proprio per la presenza dei centri sociali e delle realtà antagoniste.
Immaginate un De Corato, che ha speso una vita ad attaccare le occupazioni sociali e abitative. Lo ricordiamo da vicesindaco, quando chiese più volte la chiusura del Leoncavallo, accusandolo di essere “fuori legge” e di ospitare spacciatori e violenti. Nel 2008 il contrasto raggiunse un apice: in seguito a manifestazioni degli antagonisti, De Corato parlò di “guerriglia urbana” e attaccò perfino il Comune per la tolleranza verso gli occupanti. Oppure la ministra Frassinetti, anche lei cresciuta nel MSI, che poco tempo fa, sui social, citava il collaborazionista dei nazisti Brasillach.
Milano è una città dove, nonostante abbia eroso voti alla Lega, FdI fatica ancora a emergere. Per questo l’uso del simbolo Leoncavallo – che da anni non è più il motore cittadino dell’iniziativa politica – ha un valore puramente evocativo. Tanto che, nelle grafiche social dedicate allo sgombero, FdI ha riesumato una foto dei primissimi anni ’90, quando l’Autonomia si scontrò con i sindacati confederali durante un Primo Maggio. Più di trent’anni fa.
La costruzione del nemico, la narrazione di essere sempre sotto attacco, un linguaggio e una retorica da opposizione nonostante siano al governo da quasi tre anni, sono elementi di base della destra nazionale. Il vittimismo, tratto imprescindibile del fascismo e del postfascismo. Vittimismo e martirio: quelli che si descrivono come underdog della politica dimenticano di governare dai tempi di Berlusconi, e rimuovono anche il passato da ministra della gioventù (2008) di Meloni.
E proprio da ministra, per contrastare la cultura giovanile dei centri sociali, rilanciò l’idea delle comunità giovanili: “oasi per combattere il degrado”, basate sull’impegno di associazioni gestite dai giovani per i giovani. L’ispiratore dichiarato era Ferdinand Tönnies, sociologo tedesco di inizio ’900. Per Tönnies la comunità rappresenta un richiamo ancestrale e affettivo, contrapposto alla società, dove prevalgono rapporti basati su interessi materiali e calcolatori, che si interrompono non appena viene meno la convenienza. La comunità è il luogo del calore e del cuore; la società moderna, al contrario, è fredda, frammentata e dominata dall’individualismo.
Da qui nasce la critica di Tönnies al capitalismo, accusato di generare disgregazione e alienazione. Lo spirito comunitario di Meloni e Fratelli d’Italia è una sorta di “comunitarismo”: un’idea di comunità contrapposta all’individualismo sfrenato, ma radicata in valori identitari e tradizionali. Per fortuna non se ne fece nulla, nonostante una proposta di legge.
Negli anni ’90, soprattutto con Teodoro Buontempo, la destra ex missina mosse guerra ai CSOA. Buontempo organizzava sit-in e proteste contro i centri sociali nascenti. Le sue iniziative spesso sfociavano in tensioni con i movimenti antagonisti di sinistra. Per lui, la lotta non era solo ordine pubblico: era scontro ideologico, perché vedeva in quelle realtà un avamposto della sinistra radicale, del comunismo e dell’antifascismo militante. Per la destra romana i centri sociali erano il simbolo del monopolio politico e culturale della sinistra nelle piazze, nelle università e nei quartieri popolari. Attaccarli significava colpire un nemico storico e cercare di conquistare visibilità, soprattutto agli occhi di un elettorato conservatore che chiedeva “legalità”. Questo conflitto ha alimentato per anni un clima di scontro continuo a bassa intensità nei quartieri romani, soprattutto di periferia.
Eppure, la destra giovanile, almeno a Roma, praticò anch’essa le occupazioni. Nei primi Duemila ci fu l’occupazione del Foro 753, vicino al Colosseo, espressione della destra giovanile di AN, pochi mesi prima di Casapound. Ma già a fine anni ’80, con Fare Fronte, la destra missina aveva tentato un’occupazione a Colle Oppio, sgomberata subito. Idem a fine anni 90 nel quartiere San Giovanni per diversi mesi fu occupata una ex scuola dalla destra radicale: lo Spazio Libero PortAperta. Chissà se il ministro Giuli, con un passato in Meridiano Zero, all’epoca circolava in questa occupazione sgomberata in seguito agli scontri durante un primo maggio quando da questo spazio uscirono per attaccare la polizia in presidio per il Concertone. In una interrogazione parlamentare del 1998, Gianni Alemanno, ai tempi in Alleanza Nazionale, difese l’occupazione e ne chiese le ragioni dello sgombero contrapponendo ai “bravi ragazzi di PortAperta”, i violenti e facinorosi dei CSOA.
Su Colle Oppio, qualche anno fa, si giocò una partita tra la sindaca Raggi e il partito di Meloni, quando il Comune mise i sigilli alla storica sede ex MSI, morosa e occupata. L’allora futura presidente del Consiglio usò parole di fuoco per difendere quell’occupazione:
“Chi conosce bene il Parco di Colle Oppio sa che quei locali sono semplici ruderi senza valore commerciale o abitativo, e che la presenza della sezione è l’unico argine al degrado. Ora il sindaco vuole sfrattare chi di quel luogo si è occupato da anni, per renderlo uno spazio aperto a tutti, trasformandolo in un bivacco per sbandati, spacciatori e immigrati clandestini. Non lo consentiremo. E mi auguro che le persone normali rimaste in questa Nazione ci aiutino in quella che è una battaglia simbolica contro la furia distruttrice dei talebani di casa nostra.”
Fa sorridere rileggere queste parole oggi, perché evocano proprio quella “battaglia simbolica” che Meloni e i suoi stanno portando avanti dal 2017 a oggi. I loro Buddha di Bamiyan sono i rave, i centri sociali, la marijuana e “la furia distruttrice” scatenata da FDI si è nutrita per almeno un paio di decenni di rancore e frustrazione. Per loro è l’occasione di una resa dei conti postuma.
Sempre Meloni per difendere lo sgombero ha scritto sui suoi profili social che “In uno Stato di diritto non possono esistere zone franche o aree sottratte alla legalità.”. Pochi giorni dopo andava in visita a San Patrignano che, come le cronache insegnano, è stata per anni una “zona franca” grazie allo Stato che chiudeva non un occhio ma due. Per non parlare delle carceri o dei CPR, in Italia come in Albania, zone franche per antonomasia, nonostante lo Stato di diritto.
Oltretutto in questo clima da campagna elettorale permanente, che finora li ha visti vincenti, e che si concretizzerà tra un anno e mezzo con il voto di Milano, il “legge e ordine” diventa un tratto distintivo di un’area politica postfascista cresciuta nell’angolo. Una destra che, da oltre mille giorni, porta avanti una guerra culturale e politica per costruire un’egemonia che è già a destra, senza mai uscire dalla “sindrome di Calimero”: quella dei “poveri, piccoli e neri”, come quando Almirante descriveva il suo partito come “il partito degli emarginati”.
“La mia gente vera è stata la gente negativa
Non me ne fotte un cazzo della gente positiva, che non mi capisce
Vendetta vera non finirò in galera” (Truce Baldazzi)
