Mamma anatra di Lorenzo Amurri

Lorenzo Amurri / Zurigo, maggio 1997

 

 

È primavera a Zurigo, e piove spesso.
Nei giorni in cui il cielo è sereno, mi aggiro per il grande giardino che circonda la clinica alla ricerca del posto migliore per godermi il sole. Ho scoperto che, oltre a scaldarmi, ha il potere di calmare le contrazioni muscolari, mentre il tempo nuvoloso e la pioggia le aumentano. Non credo funzioni così per tutti i mielolesi, e non sono neanche in grado di spiegare per quale motivo il tempo influisca sul mio stato muscolare, ma cerco di sfruttare la scoperta ogni volta che si presenta l’occasione.
C’è un posto in particolare, a un centinaio di metri di distanza dalla terrazza esterna della caffetteria, che si presta alla mia nuova necessità. È illuminato dal sole per tutto l’arco della mattinata, protetto su due lati da un alto muro di mattoncini che aiuta a creare un microclima molto piacevole – nonostante l’inizio della bella stagione, la temperatura è ancora bassa –, e c’è un tavolo da giardino con alcune sedie intorno. A rendere il tutto ancora più piacevole, c’è una piccola fontana artificiale con montagnetta scenica dalla quale zampilla un getto d’acqua, il cui rumore fa da rilassante colonna sonora. Oggi degli ospiti speciali sguazzano nelle sue limpide acque: un’anatra selvatica con tre figlioletti al seguito. Nuotano in fila indiana e di tanto in tanto si immergono, per poi lavorare di becco sul piumaggio. Sembra stiano facendo un bagnetto in piena regola. Non riesco a staccargli gli occhi di dosso, e il piccolo teatrino mi mette di buon umore. Il fatto che sia l’unico spettatore, mi fa credere che la natura abbia voluto dedicarmi uno scorcio del suo splendore. Come succedeva durante le ore passate a pesca in mezzo al mare dove, a volte, mostrava attimi di pura poesia e dimostrazioni della sua potenza. Ne ricordo due in particolare: mentre un sole infuocato andava a spegnersi dentro il mare, un pesce volante era saltato fuori dall’acqua e gli era volato incontro per alcuni secondi, immobile e in perfetto equilibrio; e quando all’improvviso, in un mare fermo e piatto come il marmo, a pochi metri dal mio gommone, era apparso un capodoglio in tutta la sua imponenza.
Mamma anatra è impegnata nella cura dei suoi piccoli, e io continuo a godermi lo spettacolo, finché il pennuto di colpo si ferma e rivolge lo sguardo verso di me. Mi fissa dritto negli occhi con grande intensità. Mi giro e guardo dietro di me, per capire se c’è qualcosa che possa aver attirato la sua attenzione, mi sembra impossibile cheguardi proprio me. Sul muro non c’è niente, e non ho sentito rumori che potrebbero aver distolto la sua attenzione dalla cura della prole. Mi giro di nuovo verso la famigliola acquatica: continua a fissarmi avvicinandosi lentamente al bordo della fontana. Con un guizzo esce fuori e continua a camminare nella mia direzione, non staccando mai gli occhi dai miei. Non so cosa fare, sento un brivido di paura salirmi dallo stomaco. Potrei scappare via a tutta velocità, la carrozzina elettrica è accesa e ho la leva di guida dentro la mano, ma ormai è troppo vicina e rischierei di investirla. Resto fermo, mi guardo intorno sperando di veder apparire un essere umano che spaventi l’animale. Allo stesso tempo, però, mi chiedo come possa nuocermi, non ho mai sentito notizie di persone assalite da un’anatra. Mordono le anatre? Hanno il becco affilato? Graffiano? Mentre valuto ogni possibilità di attacco, mamma anatra dà due colpi secchi con le ali e mi atterra sulle cosce. Ho un sussulto e cerco di tirarmi indietro con la schiena per allontanare la faccia il più possibile dal suo becco. Stacco la mano dalla leva di guida della carrozzina e sto per rifilarle un colpo, quando accade quello che davvero non ti aspetti:
“Prima stai lì a fissarmi mentre faccio il bagno ai miei piccoli e ora vuoi anche colpirmi?”.
La mano si blocca e rimane sospesa nell’aria. Guardo l’anatra cercando di capire se ho avuto un’allucinazione, o se veramente ho visto il suo becco aprirsi e ho sentito uscire delle parole. Per un attimo scruto a destra e a sinistra, in cerca di qualcuno che potrebbe avermi tirato uno scherzo. Non vedo nessuno, e tutt’intorno è calato un insolito silenzio. Non sento il vociare delle persone nella terrazza della caffetteria, e neanche il passaggio delle auto sulla strada che costeggia la clinica. Silenzio che viene nuovamente rotto dal pennuto:
“Che c’è, sei muto?”.
“Ma tu parli?”
“E tu rispondi alle domande con una domanda. Che hai da guardare?”
“Non capita tutti i giorni di vedere un’anatra con figlioletti fare il bagno in una fontana, mi godevo lo spettacolo.”
“E ti sembra un buon motivo per spiare un momento di intimità? Io non vengo a fissarti quando ti lavi.”
“La mia intimità è ormai diventata di dominio pubblico e non avrei nulla in contrario, sarebbe anche un divertente diversivo.”
“Vuoi dire che ti lavi in pubblico?”
“A parte i due infermieri che mi aiutano, c’è sempre qualcuno che guarda, soprattutto i miei familiari.”
“E tu non hai niente in contrario?”
“Sembra sia una naturale conseguenza della mia nuova condizione fisica, credono tutti di avere il diritto di essere presenti, anche di fronte a cose più intime del semplice bagno. A me non dà fastidio, ho altro a cui pensare.”
“Non che voglia troncare il discorso, ma potresti abbassare la mano? Vorrei essere sicura che non hai ancora intenzione di colpirmi.”
Mi accorgo solo ora che sono rimasto per tutto il tempo con il braccio sollevato a mezz’aria, come un manichino in vetrina. Lo appoggio velocemente, con un po’ di vergogna, sul bracciolo della sedia. Mi sento più rilassato, e non ha importanza se si tratta di un’allucinazione, ho intenzione di vivermela fino in fondo, il più al lungo possibile. Anche lei è più rilassata. Si accuccia sulle mie gambe:
“Dicevi, la tua nuova condizione fisica?”.
“Non hai notato che sono seduto?”
“Che c’è di strano? Voi umani state molto più seduti che in piedi.”
“Questo è vero, ma la mia sedia ha le ruote e un motore che la spinge.”
“Pigrizia?”
“(Rido) No, la pigrizia non c’entra. Ho avuto un brutto incidente e non posso più camminare né muovere le mani.”
“Questo è un ospedale, ti cureranno.”
“Purtroppo non c’è cura per la mia situazione, rimarrò così per sempre.”
Resta un attimo in silenzio. Lancia uno sguardo ai suoi piccoli, forse sta ragionando su quello che le ho detto. Anch’io lo sto facendo. Mi rendo conto che è la prima volta che racconto a qualcuno quello che mi è successo in termini semplici, come se parlassi a un bambino. La prima volta senza quegli orribili termini tecnici che volteggiano nell’aria tutti i giorni, pronunciati dagli altri. La prima volta che le parole rendono concreta un’immagine di vita. E anche se mi fa male, sento di averne bisogno e non voglio smettere. Del resto, quale miglior interlocutore se non un’anatra parlante. Mi guarda di nuovo. Si alza in piedi e si dà una sgrullata che le fa tremare il piumaggio progressivamente, dalla testa fino alla punta della coda. Non posso fare a meno di notare i suoi meravigliosi colori: il giallo del becco; la testa e parte del collo di un verde che varia dallo smeraldo al bottiglia; il piccolo girocollo bianco che somiglia tanto a una collana, e separa le diverse tonalità di verde dal petto marrone scuro e dal grigio tendente al beige del corpo; e, infine, la coda nera con una frezza bianca sulla punta. Il tutto reso più splendente dal sole e dai riflessi che crea il piumaggio bagnato. Si accuccia di nuovo:
“Seduto stai più comodo e ti stanchi meno”.
“Purtroppo è l’esatto opposto. Stare seduti, nel mio caso, non è una posizione comoda, ed è molto faticoso.”
“Perché?”
“Perché non ho la sensibilità sulla pelle, quindi non provo alcuna sensazione piacevole. E poi non so dire se sono seduto nella giusta posizione. La fatica dipende dalla debolezza e dall’abuso dei muscoli delle spalle, gli unici che funzionano.”
“Aspetta, cosa significa che non hai sensibilità?”
“Ti faccio un esempio: tu ora sei sopra le mie gambe, ma per me è come se non ci fossi. Non sento il tuo peso, e non so se mi stai facendo male.”
“Quindi se ora ti mordessi, tu non lo sentiresti.”
“Esatto.” “E non è un vantaggio?”
“In effetti, in alcune occasioni può essere un vantaggio; in altre invece, un grande problema.”
“Quali?” “Se sono nella posizione sbagliata, per esempio, posso farmi una ferita sul sedere senza accorgermene.”
“E tu mettiti nella posizione giusta.”
“Magari sono sicuro di averlo fatto, ma non è così.”
“E perché sei debole?”
“Sono stato a letto per tanti mesi e non potevo neanche mangiare, ho perso peso e mi sono indebolito.”
“E ora puoi mangiare?”
“Sì, ma non mangio molto.”
“Sbagli, ti devi sforzare.”
“È difficile abituarsi di nuovo dopo tanto tempo senza cibo, lo stomaco si riempie subito, e a dire la verità, sono i pensieri a chiuderlo ulteriormente.”
“A cosa pensi?”
“A tutto ciò che questo maledetto incidente mi ha portato via.”
“…”
Mi guarda in silenzio, aspettando che continui a parlare.
“Non posso più fare niente da solo, ho bisogno di aiuto in quasi ogni aspetto della mia vita, che è scandita da orari e regole: fare pipì ogni tre ore, fare la cacca un giorno sì e uno no, posizionarsi a letto con diversi cuscini, prendere le medicine tre volte al giorno. Un incubo ricorrente, che si presenta ogni giorno uguale. E poi queste mani chiuse e immobili, ogni volta che le guardo mi sento male. Non riesco a prendere quasi niente da solo, ma soprattutto non posso più suonare la chitarra, la mia unica passione”, mi fermo e resto in silenzio guardando l’acqua della fontana, ma lei provvede subito a romperlo:
“Mi prude da morire la schiena, mi daresti una grattatina?”.
“Ma ho la mano serrata, non ci riesco.”
“E dai provaci lo stesso ti prego, sto impazzendo”, si gira di lato e mi offre la schiena. Provo a farlo con la nocca del mignolo della mano destra:
“Va bene così?”.
“Un po’ più su.”
“Qui?”
“Sì che meraviglia!”, si allunga tutta in pieno godimento.
“E ora mi allisceresti le piume?”
“Ma non posso aprire la mano.”
“Che noioso, e dai!”
L’accarezzo con le falangi esterne delle dita, cercando di farlo il più dolcemente possibile. Le piume sono morbide e lisce, è un piacere toccarle; e lei sembra apprezzare l’operazione:
“Ecco, per esempio, due cose che sai fare benissimo: grattare e accarezzare. E quando non puoi fare una cosa, che c’è di male a chiederlo? Io l’ho appena fatto”.
“Sì, ma tu non hai perso la libertà. Vai dove vuoi da sola, voli. Sei il simbolo della libertà. Come ti sentiresti se le tue ali non funzionassero più?”
“Sarebbe di certo un problema, ma cercherei il modo di vivere senza.”
“…”
“Tu pensi solo a ciò che non puoi fare e che non puoi avere, concentrati su quello che hai e che puoi. Due cose le abbiamo appena scoperte, e chissà quante ne scoprirai ancora. E poi hai ancora gli occhi per vedere il mondo, il naso per sentire i profumi che ti circondano, la bocca per parlare e per mangiare, il cervello per godere di queste facoltà. Non sei mica morto.”
“…”
“Cosa credi che il fatto di avere le ali mi tolga tutti i problemi? Lo sai perché sono venuta a fare il bagno qui?”
“No.”
“Hanno aperto la stagione della caccia, se vado in un lago o in un ruscello rischio di beccarmi una fucilata, e anche i miei piccoli. A te almeno non ti sparano. Tutti abbiamo problemi nella vita. Anche le persone che camminano e sono indipendenti, possono essere più tristi e avere più problemi di quelli che hai tu.”
“In questo momento farei volentieri a cambio.”
“Adesso non lo vuoi capire, ma vedrai che prima o poi succederà. Ora scusami, ma devo tornare dalla prole.”
È la prima volta che qualcuno mi fa una ramanzina del genere, e che sia stata un’anatra parlante non fa differenza. Forse ha ragione a dire che non lo voglio capire, forse non ho la forza di farlo, forse non ci riuscirò mai. Il peso di quello che mi manca affossa e nasconde tutto il resto, e le piccole conquiste di ogni giorno non mi danno alcuna gioia. La guardo raggiungere i suoi piccoli, con un’andatura ondeggiante che mi fa pensare a un cartone animato. Sorrido. All’improvviso irrompe una voce:
“Ciao!”, è la mia fidanzata.
“Ciao!”
“Che ci fai qui tutto solo?”
“Veramente sono in buona compagnia”, le indico la famigliola.
“Ma che carini! Sono lì da molto?”
“Da tutta la mattina, ma non li guardare troppo, la mamma potrebbe offendersi”, pronuncio l’ultima frase a volume più alto. Mamma anatra, che intanto è già uscita dalla fontana seguita dai figlioletti e si sta dirigendo verso la boscaglia, si gira e mi lancia un’ultima occhiata, condita da un sonoro starnazzo. Una risposta alla mia battuta, un ultimo saluto.

 

Vai a Apnea.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Fandango Libri