Come si impara a mentire: seconda ghost track

Elisa Casseri / 12 luglio 2019

 

 

«Come hai detto che si chiama il tuo prossimo libro?»

«La botanica delle bugie»

«LBDB, un segno»

«Un segno di cosa, papà?»

«Ma non l’hai vista l’ultima puntata di Game of thrones?»

«Sì, certo. Bellissima»

«Eh, si chiama La battaglia dei bastardi, LBDB…»

«Ma pensa»

«No, non c’è da pensare, c’è da agire, perché noi siamo Stark e ci siamo appena ripresi Grande Inverno…»

«E quindi?»

«E quindi dobbiamo festeggiare. Per esempio, all’inizio di questo tuo nuovo libro, non potresti far morire settecento, ottocento nemici?»

«Ma come? E perché? E soprattutto: nemici di chi?»

«Boh, veditela tu: mica sono io lo scrittore…»

[Conversazioni su La botanica delle bugie, 2016]

Quando aveva otto anni mia sorella è stata accusata di frode e associazione a delinquere. Mi ricordo che, un giorno, mia madre venne convocata dalle maestre e mi ricordo mia sorella guardarla stupita e, a domanda diretta su cosa avesse combinato, rispondere imperturbabile: «Non ho proprio idea di cosa la maestra ti voglia dire, mammina». Ovviamente mentiva.
Lei e le sue tre amiche del cuore avevano messo in piedi un business, composto di tre strategie:

  1. ritagliavano le immagini delle donne in intimo su Postalmarket e le vendevano a 50/100 lire l’una ai maschi;

  2. affermavano di sapersi leggere l’un l’altra nel pensiero, lo giuravano sulle figurine dei calciatori: i maschi dovevano solo dire un numero a una di loro e l’altra lo avrebbe indovinato mettendole le mani sulle tempie. Quello che succedeva è che l’amica che sapeva il numero digrignava i denti le giuste volte, loro indovinavano e vincevano le figurine della scommessa;

  3. rivendevano ai maschi le figurine che gli avevano estorto.

L’unico commento di mia sorella quando mia madre è tornata sconvolta (e un po’ divertita) dall’incontro con le maestre è stato: «Se i maschi sono stupidi, non è colpa mia».

Mia sorella è sempre stata bravissima a mentire: è un talento che si porta dentro, non ha mai dovuto imparare e io, nel corso degli anni, non ho fatto che studiarla questa sua capacità, analizzarla per cercare di combatterla, di difendermi, di vincere qualche partita. Sono convinta che la mia ossessione per la verità sia anche colpa sua.
Colpa di quando litigavamo per chi doveva usare il telecomando, per esempio, e lei, a un certo punto, mollava la presa, mi guardava fisso negli occhi e, senza che io l’avessi nemmeno sfiorata, scoppiava a piangere disperata: «Mamma!», urlava: «Elisa mi ha picchiato in testa con il telecomando»; e allora mia madre veniva, mi sgridava e, mentre io la guardavo attonita, mi strappava il telecomando dalle mani e dava lo scettro della vittoria a lei.
Mi ha battuto così tante volte che mi vergogno di contarle, ma la storia che mi provoca più imbarazzo è una cosa che si è protratta per un po’ e io, tutte lo volte che ci penso, non capisco come sia possibile che mi sia fatta raggirare così tanto. In pratica, mia sorella si nascondeva dietro il divano e faceva finta di essere la mia coscienza (poi dice perché sono diventata una scrittrice, ma meno male, poteva andare decisamente molto peggio): io ero piccola e molto ingenua quindi, quando sentivo questa voce – «Elisa», mi diceva: «sono la voce della tua coscienza…» – mi bloccavo, la ascoltavo e tendevo a fare tutto quello che mi chiedeva che, di solito, erano cose tipo: consegnare a mia sorella metà dei soldi che mi aveva dato mio nonno; regalare a mia sorella la maglietta rossa che le piaceva tanto; concedere a mia sorella una comunione dei beni rivisitata in cui tutto quello che era mio era per metà anche suo ma non il contrario.
Insomma, niente che mi facesse immaginare che dietro quella voce ci fosse lo schema di qualcuno. Se non fosse stato per mia madre, che l’ha scoperta, forse andrebbe avanti ancora.

Comunque, l’estate prima che venisse accusata di frode e associazione a delinquere, un pomeriggio sparso in mezzo ai due nostri compleanni estivi (lei è nata il 16 agosto, siamo tutte e due Leone, anche se solo io sono cuspide), mi si è avvicinata con un mazzo di carte e mi ha detto: «Ora noi giochiamo a poker e io ti insegno a bluffare, almeno diventi più simpatica». Da quel giorno e per tutta la vita fino a oggi pomeriggio (quando ha cercato di convincermi a telefonare a mia nonna per dirle che avevo sentito brutte voci sul suo conto e di vedere di comportarsi meglio) non ha fatto altro che cercare di educarmi alle bugie come metodo per affrontare la vita con più allegria, per tenere la mente allenata meglio di come farebbero il Sudoku o la Settimana Enigmistica e per semplificare quelle pratiche dell’esistenza che fanno perdere un sacco di tempo:

  1. «Visto che ti piacciono tanto i romanzi, vedila così: non sono bugie è fiction»;

  2. «Si chiama nonchalance, non ho saltato nessuna fila per prendere questo taxi. Sai dove ti porterà tutta questa etica? Alla fermata del 360»;

  3. «Se uno ti dice che ti ama, tu, qualsiasi cosa pensi, rispondi subito “Anch’io“. Poi si vedrà in seguito».

Non credo di aver mai reso mia sorella orgogliosa di me, però giuro di averci provato. L’ultima volta, l’undici aprile di quest’anno, il giorno in cui è uscito La botanica delle bugie.
«Papà, è successa una cosa deplorevole».
«Cosa?».
«Dal mio romanzo hanno tagliato le prime due pagine, quelle in cui morivano, per essere precisi, settecentoquarantadue nemici. Pare fossero incoerenti con il resto del libro».
«Che vuol dire “hanno tagliato”?».
«Infatti, è più giusto dire “ha tagliato”: Lavinia, la mia editor».
«Lavinia come? Lavinia Lannister? Lavinia Targaryen? Lavinia Tyrell?».
«Lavinia Azzone, papà».
«Lo sapevo che non era una Stark. Vabbè, non fa niente. Puoi sempre riprovarci con il prossimo».
«Assolutamente».
Mia sorella, quel giorno, è stata molto orgogliosa. Ma non di me, di mio padre – altro abilissimo giocatore di poker.
E quindi? A mentire ho mentito, ma possiamo dire che ho davvero imparato a mentire?
No, pare di no.
O almeno così dice la voce della mia coscienza.

Vedi La botanica delle bugie.

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