L’emergenza del teatro ai tempi del Coronavirus – Davide Carnevali

Davide Carnevali / 14-04-2020

 

In questo periodo di rallentamento forzato delle attività umane, per non parlare dell’economia, sentiamo ripetere ossessivamente che la cultura non deve morire – e, possibilmente, nemmeno il teatro. Interpretando questa preghiera come una chiamata alle armi, i teatranti provano in tutti modi a non dare per terminata la stagione, mossi apparentemente dall’alto ideale di diffondere lo Spirito dell’Arte tra la gente chiusa in casa, che di teatro dovrebbe essere apparentemente affamata. Online si possono fare un sacco di cose, soprattutto quando ci si annoia.

Così sul web gli autori continuano a scrivere, i registi a dirigere e gli attori ad attoreggiare. Insomma, non si finisce mai di reinventarsi il proprio mestiere. Quasi nullo è però il dibattito sulle modalità, e quindi sul senso, di questo mestiere da reinventare. Se ora siamo invasi di monologhi e sketch che raccontano la miseria del nostro isolamento, tra un po’ ci riempiremo di testi sulla pandemia e la fine del mondo così come lo conosciamo.

Si faranno spettacoli post-espressionisti sull’individuo che grida l’angoscia del suo “io” alienato, e i teorici parleranno di teatro post-apocalittico (vi confesso che in realtà se ne parla già). Se le prospettive sono queste, mi sembra chiaro che la cultura in generale e il teatro in particolare si sono ridotti a sistemi parassitari del mondo reale. E che, diffusamente e terribilmente, si sono perse le tracce di una qualsiasi capacità di metaforizzazione: distanziarsi un pochino dalla situazione odierna per non farsi trasportare via dal flusso degli avvenimenti, e acquisire così una prospettiva sulla direzione in cui gli avvenimenti stanno fluendo.

Senza scomodare il caro vecchio principio romantico dell’artista come profeta, forse dovremmo chiederci se la nostra responsabilità nei confronti della società non dovrebbe essere quella di interpretare il presente per preparare al futuro, invece di succhiare il sangue all’attualità e sfruttare e le sue mode – rivisitando il tema del virus in tutte le salse e rompendo anche un po’ i maroni alla gente già depressa a causa del confinamento. Il teatro non dovrebbe smaronare e deprimere; anche se spesso lo fa.

Questo blocco generale non può essere allora una buona occasione per fermarsi e riflettere, piuttosto che produrre per forza o per inerzia proposte parateatrali di dubbia qualità? Che non si capisce poi a chi dovrebbero interessare: il pubblico a casa ha accesso a ottimi prodotti confezionati da Netflix, HBO e Amazon Prime, pensati espressamente per una fruizione mediata dallo schermo, che il teatro invece digerisce male. Altra cosa sono i radiodrammi, gli audiolibri e le letture; ma di là della curiosità che un monologo in Instagram Live può suscitare, o del valore documentaristico che conserva la registrazione di un bello spettacolo, mi sembra che il teatro sia qualcos’altro. E tra un drammaturgo che dà voce al virus come fosse un personaggio, un attore che smonologa su Skype e il mio vicino che scende in strada portando a passeggio una stufa elettrica con le rotelle ricoperta da un pellicciotto e legata a un guinzaglio, mi sembra che la teatralità sia tutta dalla parte di quest’ultimo.

Forse un momento come questo è proprio il più adatto per domandarci quale teatro serva a questa società. Visto che, detto molto sinceramente, secondo me il teatro è una delle poche cose di cui quasi nessuno sente la mancanza; contrariamente alla Champions, la birretta con gli amici e la carta igienica, che invece sì hanno lasciato un grande vuoto nei nostri cuori, stomaci e culi. Il challenge che lancerei a questo punto è: cosa può fare il teatro, per riacquistare un posto, non solo nei pressi dei nostri cervelli, ma possibilmente anche lì vicino alle nostre viscere?

Tutti ripetono che la cultura ci salverà, ma quasi nessuno spiega come. Forse lo farà se smetteremo di parafrasare i personaggi del film di Bong Joon-ho, parassiti solo apparentemente intelligenti, ma in realtà estremamente stupidi. E se il grande insegnamento del regista sudcoreano stesse nel dirci che fare teatro non serve a nulla, se si limita a imitare il reale senza essere poi capace di reinventarlo quando i fatti inaspettati della vita ci pongono davanti a questa necessità…? E infatti mi sembra che il film finisse male.

La riduzione del teatro a un fenomeno visuale e acustico non fa che evidenziare la miseria di una concezione di teatralità che si è imposta, da secoli, come egemonica – o, detto in parole povere, come “normale”, nel senso che è quella che detta la norma. Ma il teatro non è un problema di visione, né di ascolto. E se pensiamo che «ok, va bene, tutto quello che vuoi, però ora il video in streaming è l’unica cosa che abbiamo a disposizione in questi tempi di merda», ci sbagliamo.

Il teatro ha a disposizione un’arma molto più pericolosa, ancora più pericolosa proprio perché i tempi che stiamo vivendo sono pieni di cacca: l’immaginazione. Non l’imitazione, ma l’invenzione della realtà. E però il teatro può sfoderare quest’arma solo se accetta di non essere pura visione, ma problematizzazione della visione. Insomma, per essere davvero teatro, il teatro deve in qualche modo essere infedele alla sua etimologia linguistica (il verbo theaomai, in greco, significa –a grandi linee- “osservare”). E questo è forse l’aspetto più interessante della sua natura: il fatto teatrale trascende il suo aspetto linguistico e, attraverso questa operazione di distacco, anche il suo aspetto visuale. Perché il teatro –contrariamente a quello che molti pensano- non è stare a lì a guardare e ascoltare attori che parlano e si muovono su un palco; il teatro è fondamentalmente manifestazione fisica di qualcosa che avviene davanti a un pubblico di individui in carne e ossa, nonostante il linguaggio e nonostante lo sguardo.

Questa esperienza, che è come una realtà potenziata, permette allo spettatore di intuire che intorno a noi c’è dell’altro, oltre a quello che vediamo e ascoltiamo. Qualche cosa che spesso sfugge al nostro sguardo e alle nostre orecchie, proprio perché le immagini e le parole la nascondono. Il teatro ci dice che la realtà non è quello che ci fanno vedere o sentire; la realtà è quello che sente e crea, in un dato momento, lo spettatore con la sua immaginazione. Ma quest’idea di teatro è rimasta nella nostra cultura, e quindi nella nostra idea di cosa sia il teatro, generalmente sommersa. Perché sarebbe utile farla emergere ora?

Se invece di guardare all’interno di una webcam ci guardassimo intorno, scopriremmo che mai come in questo periodo in cui i teatri hanno chiuso, il teatro si è aperto così tanto alle nostre vite. Cominciando, finalmente, ad avere un ruolo da protagonista nella nostra quotidianità (soprattutto in quella del mio vicino con la stufa). Non solo perché tutto il mondo sia un palco, né perché la vita sia un sogno, né perché –perdonami, Marzullo- i sogni aiutino a vivere; ma perché tutti noi, da sempre, adottiamo pratiche teatrali nel nostro vivere.

Lo sapevano Shakespeare, Calderón, Pirandello e Brecht; e anche –per chi volesse approfondire ora che ha tempo di leggere- Ervin Goffman (La vita quotidiana come rappresentazione, 1959), John Austin (Come fare cose con le parole, 1962) o Victor Turner (Antropologia della performance, 1986). Solo che spesso non ce ne accorgiamo. E, cosa ancora più imbarazzante, spesso non se ne accorge nemmeno chi fa teatro.

Il giorno immediatamente successivo all’inizio del confinamento abbiamo visto nascere spontaneamente iniziative come i concerti alla finestra, le improvvisate corali di canzoni popolari, i bingo inter-vicinali, raves e flash-mobs al balcone. Tutte queste sono espressioni di teatralità. Così come lo è stata, qui in Spagna, l’enorme cacerolada (protesta pubblica di carattere economico-politico, eseguita battendo ritmicamente un cucchiaio contro una pentola o padella) che ha accompagnato il discorso del 18 marzo del re Felipe VI, che in diretta a reti unificate invitava al patriottismo di fronte alla crisi, parlava di “società”, “popolo” e “nazione”, ma non nominava mai la parola “cultura”, né si soffermava sul fatto che suo padre Juan Carlos sia coinvolto nel più grande crimine finanziario che abbia mai toccato la monarchia dalla fine della dittatura: fondi neri in paradisi fiscali.

Vi sembra strano che lo scandalo sia venuto fuori proprio mentre tutti parlano solo del virus, e che nel giro di due giorni nessuno ne abbia più parlato…? Monologo sciapo dal finale scontato, che denota capacità attorali scarsissime da parte del sovrano. La protesta pubblica non solo metteva l’accento su un’incongruenza politica, ma era un atto di pura rivendicazione del potere del teatro.

Chi scrive discorsi sa che il linguaggio è un generatore infinito di mondi. Utilizzando una parola piuttosto che un’altra, creiamo nella testa di chi ascolta un’immagine della realtà piuttosto che un’altra. Come i buoni drammaturghi, anche i buoni politici (o i loro gohstwriters) conoscono l’importanza della scelta delle parole e sono ben coscienti del loro potenziale, e del loro pericolo. In Spagna, le conferenze stampa in questi giorni avvengono per via telematica, in sale praticamente vuote, in cui compare il politico, solo.

Come un piccolo Papa nella deserta piazza San Pietro, che porta su di sé la croce della crisi (i buoni fotografi si differenziano dai buoni drammaturghi solo perché utilizzano immagini per creare altre immagini). Le domande vengono inviate dai giornalisti a un addetto, che le filtra, prima di passarle a chi deve rispondere. Eppure la risposta del politico spesso non ha a che vedere con la domanda posta dal giornalista; solitamente si limita a ripetere frammenti di un discorso già pronunciato, riproponendo determinate parole chiave e sostituendo le altre, meno importanti, con sinonimi.

Mentre assume l’atteggiamento e il tono di chi risponde, il politico fa di tutto per evitare di rispondere (soprattutto alle questioni scomode), e approfitta di un tempo che dovrebbe essere dedicato al dialogo per riaffermare un discorso che non ammette replica; perché, non essendo il giornalista presente, non c’è la possibilità di un vero dibattito. Poche volte come in questi casi abbiamo assistito a un fallimento tanto eclatante delle funzioni del giornalismo. Poche volte come in questi casi appare tanto evidente che il politico è un attore che ha imparato una parte a memoria.

Non c’è, però, nulla di politico in questa attitudine; proprio perché non c’è apertura alla polis, alla comunità. Un muro invisibile, quello che in teatro chiamiamo “quarta parete”, divide la tribuna dalla platea, l’attore dallo spettatore, la politica dal cittadino. Il fallimento della comunicazione è il fallimento tanto della politica, come del teatro.

I politici si servono abbondantemente di espedienti teatrali. L’uso della voce, la scelta dei gesti, la prossemica… servono a mettere in risalto certe caratteristiche del soggetto rispetto ad altre, danno indicazioni sulla sua psicologia, costruiscono la sua personalità. È quello che si chiama “caratterizzazione”. Fondamentale, per fare in modo che lo spettatore percepisca il personaggio in un certo modo: forte, autoritario, comprensivo, amico… Lo stesso discorso vale per le luci, i costumi o la scenografia.

Avete fatto caso a cosa appare alle spalle degli intervistati nelle videoconferenze, in questi giorni? Quale parte della loro casa ci mostrano, quali fotografie sulla scrivania, quali libri sulle mensole (se hanno dei libri), quali soprammobili, suppellettili, crocefissi…? Un personaggio è il risultato di parole e azioni in un determinato contesto, una composizione artificiale di elementi che lo contraddistinguono. Ciò che qualcuno (un autore, un regista) vuole che lo spettatore veda. Niente di più. Le finzioni teatrali si costruiscono così, e una volta compreso come si costruiscono le finzioni teatrali, forse possiamo imparare a riconoscere come si costruiscono le finzioni della vita quotidiana. E a proteggercene. Soprattutto le finzioni linguistiche.

Nulla è più pericoloso, in questi tempi di debolezza emotiva, della retorica. In questi giorni la retorica invade tanto il discorso della politica, come quello dei cittadini (controllate le vostre chat in Wazzup). La retorica è una specie di distribuzione su grande scale di immagini prefabbricate. Quando un presidente parla di “guerra contro il virus”, impiega un linguaggio prettamente militare, che subito ci riporta all’idea di una lotta con due fazioni in campo: i buoni e i cattivi. Il virus ovviamente è il nemico e noi siamo i buoni; «quindi noi vinceremo, abbiate fede».

Questo linguaggio è di facile assimilazione e aderisce a un’idea di realtà a cui siamo stati abituati sin da bambini, grazie alla letteratura, i fumetti, il cinema, la televisione e le fiabe. Fateci caso: alla riga 3 di questo articolo, ho parlato di “chiamata alle armi”, e vi è sembrato perfettamente naturale. Perché? Perché una delle basi sulle quali noi costruiamo storie e racconti è la nozione di “conflitto”. C’è uno scontro: il primo personaggio vuole qualcosa e il secondo personaggio vuole impedirgli di ottenerla.

Ne nasce una lotta, e la storia dei due personaggi è la storia di questa lotta. Noi adottiamo costantemente queste storie e racconti, perché tutti viviamo quotidianamente situazioni che incaselliamo in dinamiche di questo tipo: tutti abbiamo obiettivi da raggiungere e tutti dobbiamo risolvere problemi che ci impediscono di raggiungerli. La nostra vita si riempe così di conflitti, e i manuali di scrittura teatrale anche. E se vediamo la nostra vita come un problema di conflitto, il mondo si dividerà per noi in buoni e cattivi, e noi vogliamo stare dalla parte dei buoni e questo ci fa pensare, automaticamente, di essere buone persone. È molto complicato accettare il proprio lato cattivo (Joker ne sapeva qualcosa; ma anche il Batman di Nolan).

La retorica serve anche a questo: ad autoconvincerci di essere buone persone. Buone persone che lottano insieme per una buona causa. Ora, il problema non è che non stiamo lottando per una buona causa… Il problema è: chi dice che dobbiamo parlare di “lotta” e di “causa”? C’è in giro un virus, ok; cosa significa “combatterlo” o “sconfiggerlo”? In che senso una malattia è un “nemico”? In che senso il confinamento è “necessario”? È proprio necessario, per un fenomeno naturale come una pandemia, parlare di guerra, che di solito non ha niente di naturale ma è, anzi, un evento del tutto umano…?

Le parole non sono innocue.

Creano nella nostra testa immagini, che si connettono con altre immagini e richiamano alla mente altre parole, che evocano altre immagini e il risultato di tutto questo è una certa immagine del mondo, quella roba che un linguista tedesco che oggi dà il nome a un’università di Berlino in cui lavora una mia cara amica chiamava in un modo impronunciabile: Weltanschauung (se questa parola vi sembra così orribile, vi rivelo che i Tedeschi hanno una parola di 63 lettere per indicare una legge inutile sul marchio di controllo alla qualità della carni bovine e affini: Rindfleischetikettierungsüberwachungsaufgabenübertragungsgesetz. Non sto scherzando).

La Weltanschauung è il modo in cui vediamo il mondo; possiamo vederlo, per esempio, come un campo di battaglia, in cui tutti siamo soldati. Fa un po’ schifo, lo so. Ma capita spesso, e chi pratica uno sport di squadra lo sa. A cosa serve? Beh, ci hanno insegnato a essere combattivi, competitivi e stronzi. Sempre. Sul lavoro, soprattutto, che è la base della nostra attività economica, che si fonda su una guerra permanente, in quel grande campo di battaglia (scusate la retorica) che è il mercato. Ma buttarla su questo piano può anche essere utile, per esempio, a fare in modo che la popolazione non si senta turbata se vede in strada militari in divisa mentre è obbligata per legge a stare chiusa in casa. Non sto dicendo che non sia utile stare chiusi in casa in questo momento (non sto dicendo un sacco di cose, in questo articolo), né che i militari in strada non siano brave persone che svolgono oggi un importantissimo servizio pubblico.

Ma.

Ma dobbiamo essere bravi a pensare che, se oggi ci accettiamo questa situazione un po’ strana, non per forza saremo obbligati ad accettarla in futuro. Magari quando, per qualsiasi altro motivo, questa situazione si ripeterà. Perché da dove viene oggi questa necessità del confinamento? È una necessità assoluta (non c’è alternativa) o relativa (ci sarebbero state alternative, ma ce le siamo giocate)? Siamo liberi di pensare che “necessario” oggi significa che non possiamo fare il numero adeguato di test, non abbiamo materiale di protezione in numero sufficiente e le nostre strutture ospedaliere non sono preparate a reggere l’impatto – qualcuno si ricorda dei tagli alla sanità pubblica degli ultimi decenni? E siamo liberi di pensare, per quanto scomodo possa essere, che la salute non è solo una questione di patologia fisica, ma anche una questione di libertà mentale e di ricerca delle felicità.

Certo, il problema è che una patologia fisica è riscontrabile scientificamente, mentre il problema della felicità lo è un po’ meno. Oggi ci stanno dicendo che dobbiamo sforzarci e rinunciare a una parte di felicità e a una parte dei nostri diritti fondamentali (la libertà di circolazione è uno di questi), in virtù di un bene maggiore che ci è stato promesso (recuperare il nostro stile di vita). Ok, io non sono un epidemiologo che lavora con dati scentifici; ma come teatrante che lavora con dati linguistici, posso consigliare che dobbiamo fare attenzione a che questa cosa non permei nella nostra Weltanaschauung, nel nostro modo naturale di vedere le cose.

Perché sicuramente arriverà -in passato è successo spesso, solo che ormai non se ne ricorda più nessuno- quel momento in cui ci sarà chiesto di nuovo di rinunciare per un po’ ai nostri diritti fondamentali, in nome di un beneficio futuro. Sacrificare la felicità presente, in virtù di un premio che ci sarà assegnato (mmm… non ci avevano detto qualcosa di simile a catechismo?). Ecco, il motivo per cui dobbiamo fare attenzione è che quando questa situazione si ripresenterà, sarà un po’ più facile pensare che sia normale. E un po’ più facile accettarla, visto che c’è già stato un precedente.

Quando vivevo a Berlino o a Buenos Aires, ogni tanto pensavo a cosa avrei fatto se avessi avuto trent’anni nella Germania hitleriana o nell’Argentina della dittatura militare. Chissà quella lieve sensazione d’angoscia che sentiamo oggi allo starcene rinchiusi in casa può esserci utile per intendere la situazione di chi ha vissuto in uno “stato di eccezione” permanente, che è quel momento in cui chi governa dice: «scusate, ma ora devo proprio fare tutto da solo, abbiate pazienza. Voi obbedite e abbiate fede e tutto si sistemerà».

Evidentemente non si tratta di fare paragoni: non è la stessa cosa. Ma forse questa sensazione di non-libertà, che stiamo vivendo a un grado minimo e superficiale, può aiutarci a farci un’idea della vita in tempi davvero difficili che hanno vissuto altre persone. A me, il fatto di essere obbligato a restare in casa, la proibizione a svolgere certe attività e la limitazione del movimento, l’imposizione di certe regole sul cui rispetto veglia un corpo di polizia… riportano un po’ alla mente un’esperienza come quella. Pure se io, nella mia vita, non l’ho mai vissuta. Si chiama “empatia”, e può generare “immedesimazione”.

Pure di questo, i manuali di teatro sono pieni. È una cosa naturale, perché per noi è istintivo (almeno così pensava Aristotele) metterci nei panni degli altri e imitarli, sin da quando siamo bambini e impariamo a vivere facendo finta di essere come gli adulti che ci circondano. Il teatro non fa altro che sfruttare questi processi mimetici (nel senso che hanno a che fare con la mimesis, il termine greco per “imitazione”; non con le divise militari verdimarronciognole – che ossessione questa dei militari, no?). A cosa viene tutto questo? Beh, se facciamo questo sforzo mimetico, per esempio, possiamo arrivare a comprendere quanto è facile, estremamente facile, terribilmente facile, accettare la limitazione della propria libertà personale, se una possibilità viene fatta percepire come necessità. E forse non ci sembrerà così strambotico che a vari milioni di persone sia successo in passato. E forse nemmeno ci sembreranno così strambotiche quelle situazioni in cui quelle persone l’hanno accettato; ma, al contrario, ci sembreranno un po’ più normali. Pericolosamente normali. E forse questo ci tornerà utile quando queste cose torneranno un giorno pericolosamente a succedere.

Può servire anche a questo il teatro? Mi sa di sì.

Questo ci porta pericolosamente a riflettere infine su ciò che consideriamo uno stato di emergenza. “Emergenza” è una parola che abbiamo ascoltato molto, negli ultimi anni. L’abbiamo ascoltata, per esempio, quando si parlava di “emergenza umanitaria” o “emergenza climatica”. Sembra passato un secolo, no? E sebbene queste emergenze siano di gran lunga più persistenti e pericolose dell’emergenza sanitaria che stiamo vivendo, la nostra reazione a quelle emergenze è stata praticamente nulla; per non parlare delle reazioni che abbiamo quotidianamente di fronte agli appelli di Emergency, che non hanno meno a che fare con la vita umana. Mi sembra però che queste emergenze abbiano avuto ben poco impatto sulle nostre vite.

Forse questo si deve al fatto che oggi ci riesce più facile ragionare sul brevissimo periodo, piuttosto che sul lungo. Nella nostra Weltanschauung è entrata prepotentemente l’idea che è meglio essere rapidi, flessibili, efficienti, adattarci immediatamente ai cambi repentini, saperci trasformare per stare al passo con i tempi, soprattutto quelli di produzione. Una quarantina di anni fa, un filosofo francese che si chiamava Jean-Françoise Lyotard disse che i grandi progetti che regolavano le nostra vita non fanno più per noi, nell’era della postmodernità.

Una delle conseguenze è che cerchiamo la risoluzione immediata dei conflitti , un’altra è che non vogliamo o non siamo più capaci di strutturare la nostra vita proiettando obiettivi ed elaborando strategie sul lungo periodo. Abbiamo perso l’abitudine di guardare avanti nel tempo; non pensiamo per le generazioni future, ma solo per la nostra (bye bye Greta). È una cosa naturale: la società in cui viviamo ce l’ha richiesto; e il tipo di economia che dirige la società in cui viviamo ce lo esige.

Avete visto le immagini di quegli allevamenti in cui il latte finisce dalla capra alla fogna, perché i produttori di formaggio non lo comprano più, quel latte non si può conservare, non si può consumare (non è pastorizzato) e in due giorni va a male? È solo un esempio agreste, ma queste cose succedono su larga scala. La nostra economia si basa sulla velocità, i flussi economici e finanziari sono rapidi, il processo di produzione e consumo anche. Escogitare soluzioni per l’emergenza umanitaria o per fermare il cambio climatico implicano uno sforzo progettuale troppo grande, lento, farraginoso e non avremmo risultati tangibili sottomano prima di molti anni. Questa cosa è tremenda: siamo ossessionati dalla tangibilità dei risultati.

Vogliamo dati e numeri, ogni giorno riceviamo dai telegiornali dati e numeri, e anche questa pandemia si sta risolvendo in una questione di dati e numeri. Perché quest’attrazione morbosa per la tracciabilità dei risultati? Avere sottomano dati e numeri ci dà l’impressione di avere controllare le cose. E se abbiamo l’impressione di avere il controllo sulle cose, ne abbiamo meno paura. Questa idea, che nella storia della storia si è configurata come la perversione massima delle correnti positiviste, è parte della nostra cultura, della nostra Weltanschauung. Tutto ciò che è misurabile, definito, commensurabile è meglio di ciò che sfugge alle misurazioni, alle definizioni e alla nostra comprensione. Da Aristotele in poi (che aveva formulato questa brillante intuizione basicamente per far girare le balle al suo maestro Platone) siamo tutti un po’ più materialisti. Amiamo avere il controllo della situazione. E quando ci accorgiamo che nell’esistenza umana non tutto è controllabile (siamo stati tutti innamorati) andiamo in crisi. Per evitare di passare per brutte esperienze di questo tipo, ci affanniamo a organizzare la nostra vita. Fermare il mondo un giorno al mese per limitare le emissioni di CO2 e migliorare un poco il clima non era, fino a un mese fa, una meravigliosa utopia che nessuno credeva realizzabile? Oggi, che il mondo se è fermato da un giorno all’altro fondamentalmente per la paura enorme che ci assalito davanti a qualcosa di non misurabile, non definito e non comprensibile come l’espansione di un virus, l’abbiamo realizzata.

Cosa ci resta adesso, se non la meraviglia in sé? La meraviglia di queste città vuote e silenziose. Ma anche la meraviglia di non sapere cosa succederà domani. Come vivremo nei prossimi mesi, o anni? Il nostro sistema economico reggerà all’impatto? E se il nostro sistema economico fosse da buttare? E se lo stile di vita che abbiamo adottato finora fosse da buttare? Fa un po’ paura, come tutte le cose sconosciute. Certo, è il prezzo che la meraviglia fa sempre pagare. Non preoccupatevi, non c’è nulla di scientifico in quello che sto dicendo. È solo un piccolo volo poetico. Ma anche di tutta questa meraviglia e poesia, il teatro si occupa abbondantemente.

La verità è che il mondo è in perenne stato di emergenza. Stavo per scrivere “il mondo in cui viviamo”, ma effettivamente quello che è in emergenza perenne non è in alcun modo il mondo in cui viviamo. Il mondo in emergenza è, al contrario, proprio “il mondo in cui non viviamo” e questa negazione è essenziale perché possiamo continuare a vivere la nostra vita. È come se, per vivere, dovessimo dimenticarci di quel mondo in emergenza, e sommergerlo nel flusso di altri pensieri. In caso contrario, la nostra esistenza non sarebbe sopportabile.

Chi di noi potrebbe vivere in pace sapendo che la nostra vita è possibile solo nei termini in cui altre vite sono negate, che per ogni individuo che mantiene il nostro livello di vita ce ne sono vari che non possono mantenerlo, che l’Europa è ricca solo perché buona parte degli altri continenti è povera, che per costruire questo mondo abbiamo devastato per secoli il mondo degli altri e se il Primo Mondo è primo, è perché ce ne sono altri che devono rimanere per forza Secondo e Terzo, altrimenti che cavolo di senso avrebbe questa distinzione…?

Tutto questo, nella nostra quotidianità, ce lo dobbiamo dimenticare, dobbiamo “fare finta che” non esista. E questo fingere è, in fin dei conti, un altro atto di teatralità. Il più importante, forse. La finzione sta alla base di tutto. Appartiene a quella tradizione delle arti dello spettacolo che invita a nascondere, tramite artificio, il reale dietro un’apparenza di realtà. Secondo questa linea di pensiero, la vita si nasconde dietro la sua ricostruzione sul palco e la coscienza dell’attore si nasconde dietro quella del personaggio. Lo spettatore accetta questa convenzione, vede ciò che il teatro gli mostra e lo riceve “come se fosse” realtà. Poco importa se non lo è; quello che importa è l’illusione. In questo modo accettiamo di prendere per vero ciò che è falso. Non lo facciamo solo quando entriamo a teatro, ovviamente. Lo facciamo anche quando ne usciamo. E questo può essere problematico.

Nel corso della storia sono emerse altre linee di pensiero che hanno proposto di vedere le cose in modo diverso. Pensatori come Friedrich Nietzsche o Antonin Artaud hanno cercato nell’origine rituale del teatro il contatto essenziale con la realtà, non filtrata da una rappresentazione. Bertolt Brecht ha optato invece per mantenere la rappresentazione, però mostrando al pubblico i meccanismi della sua costruzione e ricezione. Cioè facendo in modo che il teatro dichiarasse esplicitamente di essere un’operazione artificiale, facendo vedere chiaramente allo spettatore come si costruiscono queste finzioni e com’è facile crederci, e soprattutto quali sono i rischi conseguenti. Tanto i primi come il secondo hanno auspicato, cioè, l’emergenza di una teatralità sommersa.

In un suo breve saggio chiamato L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, un altro filosofo tedesco (vi giuro che è l’ultimo che cito) di nome Walter Benjamin, che tanto si è occupato di teatro e soprattutto di Brecht, fa un paragone tra il mago e il medico. Il primo cura il malato con l’imposizione delle mani dalla distanza, avvolto da un’aura di mistero; il secondo annulla la distanza tra sé e il paziente, si presenta come un uomo di fronte a un altro uomo, da cui si differenzia solo per una maggiore abilità tecnica, e non per qualità sovrannaturali.

Forse mai come di fronte alle grandi epidemie, l’uomo patisce una crisi nella crisi: l’impossibilità di esercitare la sua propria umanità, che si realizzava nella prossimità, nell’annullamento della distanza tra essere umano e essere umano. Vorrei dirvi che questo annullamento della distanza è proprio ciò che contraddistingue il teatro da ogni altra forma d’arte. Perché, il teatro è presenza fisica di più corpi nello stesso spazio: il corpo dell’attore e quelli del pubblico. Ecco perché all’inizio di questo articolo vi dicevo che dobbiamo superare l’idea che il teatro sia visione e ascolto, e abbandonarci all’esperienza, che è l’esperienza della vita. E nella vita non c’è nulla di più umano che questa prossimità.

Facciamo in modo che non ce la tolgano, quando tutto questo sarà finito. Ci stiamo abituando a pensare che si può fare il bene dalla distanza, ognuno da casa sua. È vero, ma è un’idea di “fare il bene” molto limitata e limitante. Ci stiamo abituando a pensare che possiamo parlare e discutere senza riunirci in gruppo. E che la condivisione fisica è prescindibile. Facciamo in modo di non pensare che una società può funzionare dalla distanza, online, attraverso immagini e suoni e senza condivisione fisica.

Ci stiamo abituando a pensare che, anche se il cielo è azzurro, possiamo starcene chiusi in casa, pazienza. Ci stiamo abituando a pensare che possiamo trattenere e reprimere quella voglia terribile di stare fuori. Ci stiamo abituando a pensare che siamo immunodepressi, deboli, esposti ai pericoli, fragili e bisognosi di protezione. Facciamo in modo che tutto questo non permei nella nostra maniera di vedere le cose. Altrimenti è finita. Altrimenti saremo davvero deboli e fragili, cercheremo davvero la protezione di qualcuno. E saremo controllabili. Facciamo in modo di rioccupare appena possibile gli spazi oggi lasciati vuoti e, soprattutto, di colmare quella distanza che oggi ci separa e che si affaccia sempre più, non solo in questo stato di eccezione, come una minaccia alla nostra umanità. Anche per questo, ai medici vanno i nostri ringraziamenti: perché –come i migliori teatranti dovrebbero fare- si giocano la vita per quella prossimità, per quella umanità, che è il senso del nostro essere in questo mondo.

Applausi per loro, dunque.

Poteva esserci un finale più teatrale?

5 replies on “L’emergenza del teatro ai tempi del Coronavirus – Davide Carnevali

  • Claude Mac Hammer

    Grazie per questa riflessione acuta profonda. Ne raccolgo non solo il monito a sorvegliare su ciò cui stiamo derogando in termini di libertà affinché non ci si ritrovi assuefatti sfiancati e depressi, ma anche non voler rinunciare a ciò che il teatro può fare: porre domande facendo un salto “ dall’altra parte” e possibilmente allargare i confini della weltanschauung …Grazie davvero

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  • Claude Mac Hammer

    Grazie per questa riflessione acuta profonda. Ne raccolgo non solo il monito a sorvegliare su ciò cui stiamo derogando in termini di libertà affinché non ci si ritrovi assuefatti sfiancati e depressi, ma anche non voler rinunciare a ciò che il teatro può fare: porre domande facendo un salto “ dall’altra parte” e possibilmente allargare i confini della weltanschauung …Grazie davvero

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  • Paolo Piano

    Grazie davvero. Grazie a chi ha questo acume.
    Graffiante, doloroso, necessario.
    Svegliamoci dal torpore e restiamo vigili e coscienti anche quando questa notte terminerà.
    Abbiamo una società da reinventare. E non è poco.

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