Il canto da El-Agheila non si è spento

Mario Eleno, Manuela Mosè / 18-01-2022

Carta e matita erano vietate nel campo di concentramento fascista di El-Agheila, in Libia, nella Cirenaica sud-occidentale, sulla costa meridionale del Golfo della Sirte, fra le dune brucianti del grande Sahara e le onde amnesiche del Mediterraneo.

I detenuti costretti a raggiungerlo percorrendo quattrocento chilometri a piedi nel calore estenuante del deserto erano donne e bambini, anziani e ragazzi. C’erano anche uomini valorosi, che avevano combattuto e resistito sulle loro nobili cavalcature agli attacchi dell’aviazione, all’iprite, ai proiettili, alle bombe lanciate sui villaggi, alla mancanza d’acqua, ai pozzi soffocati col cemento, alla politica fascista di devastazione e sterminio, alla sua allucinazione espansionistica e imperiale.

Fra loro c’era un poeta, Rajab Abuweish, che nell’accampamento immenso, in prigione dietro al filo spinato, con sentinelle ad ogni ingresso che sorvegliavano puntando le mitragliatrici, fra gente resa malata e cenciosa e affamata dalla disumanità della detenzione, nella rovina e nella violenza, esiliato in patria, trincerato nella sua voce, compose a memoria un poema di trenta strofe e lo trasmise oralmente agli altri prigionieri rafforzandone lo spirito di resistenza, come un’arma per sopravvivere, tracciando al contempo tutte le torture subite dal suo popolo.

Un canto come ultimo rifugio, un canto per scampare alle sabbie, al fuoco, agli assalti dell’assurdo, alla morte. E quel verso che ritorna come una preghiera e una maledizione: Il mio solo tormento.

Era il settembre del 1931, Omar al-Mukhtar – il leone del deserto, la guida del movimento di resistenza armata delle tribù – era stato condannato da un tribunale fantoccio e impiccato pubblicamente nei pressi di Bengasi, le speranze di riconquistare la propria terra si erano estinte, e Rajab, non potendo che abitare la sua ferita, cantò con rabbia e angoscia il genocidio in Libia commesso dall’Italia fascista.

Tra i prigionieri che ascoltarono c’era Ibrahim al-Ghomary, un uomo colto, che in seguito, sopravvissuto nel 1934 alla chiusura del campo di El-Agheila, trascrisse scrupolosamente il poema, giocando un ruolo fondamentale nella sua trasmissione.

Anche Rajab uscì vivo da El-Agheila, ma con lo status di cittadino italiano libico, come tutti gli altri d’altronde.

Morì nel 1952, pochi mesi dopo l’indipendenza della Libia, all’alba della Costituzione, lasciando ai posteri un poema di portata universale, una testimonianza impressa nella memoria dalla bruciatura della mancanza e della perdita, una memoria poetica che più della Storia ha saputo gettare luci nette sull’oscuro colonialismo italiano d’oltremare, un canto che s’inserisce nella pura tradizione araba di epoca preislamica, una poesia orale, un dire istantaneo, una voce che dà coscienza immediata del massacro di un popolo.

Abbiamo riletto attentamente un centinaio di volte la nostra traduzione, per essere sicuri di ogni singola scelta, di ogni parola e dello spirito complessivo dell’opera.

Il mio solo tormento di Rajab Abuhweish impressiona per la forza lirica che riesce a esprimere attraverso l’asciuttezza del linguaggio, la brevità e la secchezza del verso, la sguarnita musicalità di una voce che erige il suo canto sulla sabbia del deserto senza enfasi – erige sulla sabbia come se lo stesse facendo sulla pietra, con la consapevolezza di chi costruisce un atto di poesia destinato a non sgretolarsi, a rimanere in piedi e a camminare oltre il muro del tempo, inscalfibile come il piombo, eludendo i confini e il filo spinato, portando nel suono il marchio a fuoco dei distrutti, la lucida testimonianza dello sterminio sistematico e vigliacco, la strage di chi non ha in sé nessun male.

Solo il poeta è in grado di colare la fiamma viva della memoria nelle orecchie delle generazioni, dalle orecchie fino al cuore perché la devastazione non si ripeta.

E con questi versi Rajab ci esorta ad arruolarci nell’esercito della poesia per combattere ancora una volta e respingere i mostri inumani e abbietti che infestano l’esistenza. Abbiamo scoperto Il mio solo tormento per caso nel 2018.

Ma il caso è un costruttore rigoroso e non edifica mai a vanvera. A quei tempi giravamo l’Italia con la nostra compagnia teatrale portando un reading che avevamo denominato Teatro Porto Aperto.

Si trattava di una mobilitazione poetica dedicata alle letterature etnicamente diversificate e miravamo a diffondere le scritture di poeti e poetesse provenienti dai Paesi del Sud della Terra – autori che spesso non arrivano al mondo occidentalizzato nonostante la loro grandezza.

La nostra bocca, come un porto aperto, accoglieva navi cariche di poemi sconosciuti e urlava con ferocia dirompente il loro messaggio pregno di un’aspirazione rimasta per secoli soffocata – un modo di stare nella vita che non si è espanso liberamente.

Li riscattavamo tutti e facevamo librare nell’aria le loro creazioni meravigliose affrancandole dai regimi che avevano dovuto subire.

Affrontavamo il fatto della migrazione umana come attitudine animale a spostarsi da un posto all’altro del globo per sfuggire alla morte, a caccia di sopravvivenza, per cercare condizioni di vita migliori o semplicemente per istinto innato.

Ricordavamo come tanti artisti dei popoli del Sud non ce l’avevano fatta, assassinati prima di consegnare le proprie formule all’umanità, scomparsi durante i viaggi di sopravvivenza, stroncati dal mare non erano arrivati fino a noi, i loro pensieri non avevano fatto in tempo a depositarsi, avevamo perso per sempre la loro grazia.

Cantavamo per evitare l’estinzione di interi pezzi dell’anatomia della bellezza, in nome di tutti quelli che avrebbero potuto raccontare da vivi la propria storia: sarebbe stato grande ascoltarli, in quanto sarebbero stati messaggeri dell’esperienza del popolo intero da cui provenivano.

In Teatro Porto Aperto viaggiavamo nel Sud della loro Anima, sicuri che quella non era stata distrutta.

E parlavamo anche degli odierni campi di detenzione in Libia, certo; delle donne che ci muoiono di setticemia, di quelle che ci crepano dopo aver partorito un bambino morto a causa di un cordone ombelicale reciso con un filo arrugginito, delle donne trasformate in schiave, torturate e violentate; degli uomini messi in croce, dei bambini scorticati, delle ragazze uccise con un colpo di pistola in fronte; degli emigranti intercettati dalla guardia costiera libica, intrappolati, riportati indietro e massacrati; del nuovo olocausto nel Mediterraneo, milioni di persone annegate lì sotto; e dell’Europa, seduta sulla poltrona a guardare lo spettacolo.

Una volta capitammo con la nostra performance in una piccola libreria di Napoli, in via di Santa Chiara, di nome Tamu, gestita da Fabiano e Cecilia – due magnifici librai interessati a proporre una selezione di libri utili a prendere in esame molte questioni della società contemporanea, con un particolare interesse per l’area che va dal Marocco all’Afghanistan, quella dei Balcani, dell’Africa e dell’America Latina.

Facemmo il nostro reading di fronte a una ventina di spettatori attentissimi, dopo dialogammo un poco sui temi che erano usciti e infine ci salutammo, con la memoria di tante storie ormai custodita nelle orecchie e pronta a diventare gesto poetico nella realtà. Ma prima di andarcene chiedemmo a Fabiano di consigliarci un libro.

Lui ci pensò su, giusto un minuto, poi si diresse deciso verso gli scaffali e prese un volume dalla copertina grigia e bianca. Si avvicinò e ce lo porse. Sul fronte c’era una foto in bianco e nero con delle palme, forse una strada litoranea. E sopra, il nome dell’autore e il titolo: Hisham Matar, Il ritorno. “Vi piacerà, sono sicuro”, disse Fabiano. “Matar è uno scrittore libico, ha vinto il Premio Pulitzer lo scorso anno per questo libro. Ha a che fare con un viaggio nella sua memoria privata che s’intreccia fin da subito con la storia della Libia del ventesimo secolo, quindi anche con la nostra storia.” Ci fidammo a occhi chiusi e lo prendemmo.

Una settimana dopo cominciammo a leggerlo, rigorosamente a voce alta, dandoci il cambio, un capitolo per uno. Più o meno a metà del libro arrivò la scoperta. A pagina 130 Hisham parla della violenta campagna di oppressione coloniale dell’Italia fascista contro la Libia, con Mussolini sovrintendente a un genocidio.

E poco più avanti, raccontando i crimini nei campi di concentramento, fa cenno a un poeta libico chiamato Rajab Abuhweish e al suo poema di trenta strofe composto a El-Agheila, mandato a memoria nella tortura e nel sangue della prigionia.

Capimmo di aver toccato un’informazione cruciale e ne discutemmo a lungo. Ci faceva ricordare il Canto del popolo yiddish messo a morte che il poeta Itzhac Katzenelson scrisse, sigillò all’interno di tre bottiglie e sotterrò ai piedi di un albero nel campo di concentramento nazista di Vittel, ma ci riportava anche ai Racconti della Kolyma di Varlam Šalamov.

Finimmo il libro e ci mettemmo alla ricerca del poema, volevamo inserirlo nel programma di Teatro Porto Aperto. In breve tempo ci rendemmo conto che non esisteva una traduzione italiana e che in Europa era stato tradotto solo in Francia nel 2014 dal poeta e romanziere libico Kamal Ben Hameda, edito da elyzad. Senza molte difficoltà ci procurammo l’edizione francese e immediatamente iniziammo a tradurre di nostro pugno.

Nel giro di tre settimane terminammo e dopo una prima lettura ci fu chiaro di avere fra le mani un documento storico fondamentale per la memoria del nostro Paese, per dare una spallata alla recrudescenza del fascismo e per risvegliare l’attenzione pubblica sugli attuali lager in Libia. Migliorammo alcuni dettagli del lavoro confrontandoci con Farid Adly (giornalista libico residente in Italia), con Sana Darghmouni (professoressa di lingua araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia e di linguistica e letteratura araba all’Università di Lingue e Letterature Moderne di Bologna) e con Silvia Amato (docente di francese all’Institut Français Centre Saint-Louis di Roma).

Studiammo testi imprescindibili sull’argomento, come Genocidio in Libia di Eric Salerno, Oltremare di Nicola Labanca e gli scritti di Angelo Del Boca. Decidemmo di non usare il poema per Teatro Porto Aperto, doveva essere pubblicato, era troppo importante.

Sono passati tre anni da allora e oggi Fandango Libri ha accettato senza remore il nostro progetto. Gliene siamo infinitamente grati. Il canto da El-Agheila non si è spento.

 

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