Considerazioni egoistiche sul lavoro in fabbrica ai tempi del coronavirus – Luca Bertolotti

Luca Bertolotti / 23-04-2020

 

È dal 16 marzo che sono a casa. Per una volta lavoro come verniciatore per una società che pare più lungimirante dello stesso governo che successivamente (appena un settimana dopo) ha posto il blocco di tutte le attività produttive non strettamente necessarie.

 

Per anni ho lavorato in aziende che hanno attentato alla salute dei dipendenti, quando ancora l’idea di un coronavirus su scala planetaria poteva essere annoverata nel filone narrativo delle distopie fantascientifiche.

 

Ho lavorato in ambienti malsani, tecnologicamente arretrati, frutto di gestioni votate al risparmio o semplicemente impoverite da un mercato sempre più asfittico. Ora potrei dirmi finalmente arrivato, quasi salvato: il mio datore di lavoro ha preferito la mia salute al suo profitto. Eppure mi sento come un disertore.

 

Io, ora a casa, senza nemmeno l’obbligo dello smart working, prigioniero di questa quarantena, sono libero finalmente di coltivare i miei interessi. Libero di leggere, di scrivere. Libero di seguire i bambini, di fargli fare i compiti, di stare con loro. Mi sento come un disertore che ha trovato il modo per imboscarsi mantenendo però la coscienza a posto. Perché, sì, il paragone viene facile: negli ultimi tempi il lavoro in fabbrica mi è parso assomigliare sempre di più ad una guerra. Certo un paragone trito ma comunque ormai un adagio, quasi una cantilena, tra operai.

 

Ora tutto deve esser più veloce, i tempi sempre più serrati, la produzione più rapida e con sempre meno resi, meno errori. Tecnologicamente un disegnatore tecnico è passato negli ultimi vent’anni dai rapidi a china su carta acetata a utilizzare un mouse e programmi quali SketchUp o CAD 3d.

 

Anche in produzione ci sono stati dei cambiamenti, ovvio: il falegname ora usa una sola macchina a controllo numerico al posto di tutte quelle che per anni hanno minacciato le sue falangi (foratrice 32, squadratrice, toupie, eccetera). Per un verniciatore come me, invece, uno da lavoro non seriale, non è cambiato nulla. Eppure, nel tempo, mi è stato chiesto di adeguare la mia produttività a quella degli altri, per non restare indietro nell’intera filiera.

 

Ultimamente ho sognato di tornare nelle vecchie e puzzolenti botteghe di un tempo. Ho sognato di tornare più umano, rallentato, anche se maggiormente in pericolo, magari con la schiena più rotta o i bronchi più ostruiti. A questo, mi dico, arriva lo stress, dovuto alla velocità come fine ultimo della produzione, a farti rimpiangere i mali minori così come quelli maggiori da cui, a ragione, sei scappato appena hai potuto.

 

Sì, io durante questa quarantena sarò il disertore, il traditore, quello che ad ogni rinvio d’apertura si sentirà sollevato. Sono quello che si sveglia al mattino fottendosene di essere in cassa integrazione. Già una volta ho subito gli effetti di una grave crisi economica: ho perso il migliore lavoro che avessi mai avuto per non ritrovarne più nemmeno un pallido surrogato.

 

Questa volta sento di aver da lasciare sul campo molto meno, anche se partite IVA e interinali potrebbero odiarmi per quello che sto scrivendo. Guardo il telegiornale, faccio videochiamate ai parenti, misuro la casa a passi. Penso al fatto che ho preso troppo sul serio il mio mestiere, al punto di averlo paragonato a una guerra, e intanto osservo le immagini di infermieri e medici addormentati sul linoleum dei corridoi dopo turni di lavoro a doppia cifra.

 

Io voglio che questo virus se ne vada come è arrivato anche per dare un senso al lavoro di queste persone, visto che un scopo al mio fatico sempre più a darlo. Ma no, non voglio tornare alla normalità. Alla mia normalità. A quella normalità. Non adesso, almeno.

 

Voglio solo fermarmi ancora per un po’.

 

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