Sono tornata bambina – Serena Marchi

Serena Marchi / 2-05-2020

 

Io sono tornata bambina. Ai lunghi, interminabili pomeriggi estivi passati ad annoiarmi sotto l’acero del mio giardino. Quando guardavo il cielo dove le nuvole assumevano le forme più disparate e ci vedevo dentro qualunque cosa. Vuoi un cane, uno squalo, un coccodrillo o un folletto.

 

La chiusura forzata in casa per il coronavirus per me è iniziata a inizio marzo. Una febbre e un piccolo dolore al petto mi hanno costretta tra le mura domestiche ben prima del lockdown imposto dai decreti di Conte. Il giorno in cui sarei dovuta rientrare al lavoro è coinciso con il primo di quarantena forzata in tutto il Paese. Qui Verona, per un breve tempo la terra di mezzo della prima grande zona rossa del nord Italia, circoscritta tra le province di Milano, Brescia, Vicenza e Mestre. Mosca bianca, sembrava. Contagi minimi, pareva. Era -ahinoi- solo una questione di tempo.

 

Con la successiva chiusura di tutta Italia la mia quotidianità è cambiata, assieme a quella di milioni di altre persone. La camera che diventa ufficio, la moka che diventa macchinetta del caffè, il telefono che diventa porta sul mondo. Tutto si chiude in cento metri quadrati più una terrazza dove ogni cosa si amplifica e i contorni perdono fastidiosamente forma. Ed è lì che, lontana da tutti, per salvarmi da nevrosi causate dal rumore insopportabile di mio figlio che mastica o dal gatto che si fa ripetutamente le unghie, io sono tornata bambina.

 

Ero problematica, me piccina. Da piccola non parlavo. Preferivo starmene zitta, chiudermi nel mio mondo e osservare tutto quello che mi girasse attorno. La noia era tra le mie migliori amiche. Libri e noia, per la precisione. Con loro passavo ore a immaginarmi vite parallele, tratte dai cartoni animati o dai racconti che leggevo. Un giorno ero Candy Candy e raccoglievo fiori per adornarmi la camera, un altro ero Lady Oscar e cercavo nell’armadio di mio fratello i vestiti che più mi facessero assomigliare a lei. Un altro ancora ero Dorothy e immaginavo di indossare magiche scarpette rosse mentre il mio cane Rocky -un meticcio pieno di pelo- diventava Totò e mi guardava incuriosito.

 

Io e me, sotto l’acero, a canticchiare canzoni, a sognare il futuro, mentre il tempo lentamente passava. Un po’ come adesso, quando spengo il pc e ‘chiudo’ l’ufficio. Mi sono imposta un gioco, in questo strano tempo sospeso dove non sono più una bambina ma una tra i tanti che rispetta le regole e rimane a casa: trovare almeno tre cose belle, degne di nota, durante la giornata. In realtà ho rubato l’idea e una preziosa amica, che me l’ha prestata volentieri. Ora, quando sento le mura della stanza che mi si stringono contro e pare mi stiano per cadere addosso, quando le giornate paiono tutti identiche e le ore sembrano incagliate in un eterno presente, cerco una cosa bella.

 

Se accade (e me ne accorgo), me la appunto, per poi farne il riassunto serale. E così ecco la riscoperta del silenzio, l’odore forte del temporale, l’adozione di un ippopotamo a distanza, le note di una canzone dimenticata, un’ape che si ostina a voler entrare in casa, un orso che arriva nelle deserte colline veronesi, sentirsi cercata da chi è rimasto lontano, il sapore delle fragole, notare che non mi trucco da oltre un mese, alcuni angoli di casa che trasmettono emozioni, veder scivolare da un libro una vecchia cartolina, il gusto dolce delle mandorle, riordinare i miei libri, aprire una bottiglia di buon vino rosso.

 

Sono tornata a vedere le piccole cose, apparentemente insignificanti, come faceva patologicamente la me bambina. Ritrovate attenzioni che a me donano un po’ di gioia e mi fanno capire che basta poco, basta spingere un po’ in là lo sguardo, ed è già domani.

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